Vista da Malta. Il problema dei confini
In questi ultimi tempi ho l’impressione che quando mi presento e dico che sono di Malta, sempre più italiani conoscano il mio paese, che l’abbiano visitato di recente, e che il confine si stia pian piano dissolvendo.
Qualche giorno fa, infatti, qualcuno mi ha parlato con grande entusiasmo del colore della pietra corallina che «da noi» si utilizza per costruire le case. Certamente, la pietra si vede di più perché l’Unione Europea ha appena speso più di 40 milioni di euro per restaurare 135.000 metri quadri di fortificazioni «all’italiana», e il nuovo Parlamento maltese ideato da Renzo Piano è un’ulteriore glorificazione di questa pietra massiccia e imponente, sempre più presente nei selfie dei turisti.
Tra fortezze sconfinate e continenti muragliati
Malta aveva la fama di essere un’isola fortezza, con più 25 km di fortificazioni solo sulla costa; per secoli i Cavalieri di Malta hanno usato le rendite delle loro immense proprietà sul continente, e i profitti della Corsa contro gli Ottomani, per fortificare ogni punto possibile d’approdo con tecnologica militare d’avanguardia.
La paura dell’invasione turca o «musulmana» ha plasmato la psiche degli isolani. Durante la Seconda guerra mondiale, poi, si temeva l’invasione italiana: il governo britannico vi installò un sistema radar secreto e rudimentale che permise di rendere inefficaci gli incessanti bombardamenti aeri dell’Asse, e fare sì che Malta potesse onorare la sua fama di «fortezza inespugnabile».
Ironicamente, però, l’economia «da fortezza» divenne insostenibile già nell’Ottocento, e tra il 1814 e il 1980 molti maltesi varcarono il confine, cercando la loro fortuna altrove; molti sono tornati in patria dopo qualche decennio con nuove idee e affascinanti racconti.
Questo fascino dell’altro ha permesso, al momento dell’indipendenza, di immaginare uno spostamento radicale del baricentro economico dell’isola: da quello di una base militare che serviva per respingere lo straniero al turismo, che proponeva di stendergli il tappeto rosso.
Certamente, oggi come prima, si accolgono più volentieri i bianchi nordici che le persone del Sud o dell’Est, ma negli ultimi anni il boom economico e la riduzione degli arrivi irregolari ha smussato la xenofobia, perché la manodopera a buon mercato serve ovunque.
Una delle cose più inusuali durante la mia ultima visita è stato l’incontro, nella piazza di un paese all’interno dell’isola, con uno svedese appena immigrato a Malta per cercare lavoro nel settore del gaming. Per un attimo anch’io, eterno tifoso del cosmopolitismo e di un mondo (quasi) senza frontiere, sono rimasto sorpreso.
La cosa curiosa è che mentre Malta, l’isola fortezza, sta diventando più cosmopolita, e mentre i maltesi si sentono più europei e – con l’aiuto della familiarità con la lingua inglese – traggono beneficio della scomparsa dei confini interni in Europa, l’UE rischia di diventare un blocco-fortezza, bramoso di costruire muri piuttosto che ponti.
Una fratellanza confinata?
Un audace documento, firmato da papa Francesco e il grande imam Ahmad al-Tayyib il 4 febbraio di quest’anno, al termine della visita pontificia ad Abu Dhabi, parla con grande forza della «fratellanza umana».
Certamente c’è un legame che unisce tutti i membri del genere umano, una forma di solidarietà che esige da noi il rispetto della dignità (e ovviamente della vita) gli uni degli altri, e che rende immorale il tentativo di giustificare il terrorismo facendo appello a qualsiasi religione o ideologia.
Molti parlerebbero di filantropia, di mutuo riconoscimento, di humanitas o anche di filoxenia per indicare questo tipo di solidarietà, ma non accettano di chiamarla fratellanza: la fratellanza sconfinata li farebbe pensare a visioni internazionaliste come quelle di Anarcharsis Cloots o Karl Marx.
La fraternitas cristiana di Francesco, e la umma musulmana di al-Tayyib, sono delle fratellanze che superano tanti confini – quelli di etnia, razza, lingua, nazione, cittadinanza, genere –, ma costituiscono un gruppo identificabile all’interno del genere umano, distinto da altri gruppi.
Fino a un certo punto nell’UE sta nascendo una «fratellanza» sovranazionale: anche se facciamo fatica a sentirci cittadini e fratelli «europei» nel senso politico, il fatto che stiano nascendo dei legami forti tra di noi lo vediamo bene dalle fatiche della Brexit.
Tuttavia è naturale nei gruppi umani cercare dove sta il confine: se tutti gli esseri umani fossero veramente come «fratelli» e «sorelle» per me, sarebbe come se non avessi fratelli e sorelle, perché non si può avere con tutti un rapporto speciale senza rendere vano quell’elemento «speciale».
Forse la vera «fratellanza umana» si può immaginare in un esperimento mentale: in una lotta contro degli spiriti cattivi, un’invasione di extraterrestri, o una rivolta dei robot (cioè ponendo l’umanità a faccia a faccia con degli altri esseri intelligenti), possiamo escludere degli «altri» dalla nostra «fratellanza», per poter così costituire una «fratellanza umana» applicandovi il principio di comunanza di genere e di differenza specifica. La fratellanza di Cloots escludeva implicitamente i reazionari, e quella di Marx i non-proletari.
Perciò il testo di Francesco e al-Tayyib è una sfida non solo per coloro che vogliono usare la religione per giustificare la violenza (come fanno i terroristi o i teppisti) o escludere l’altro dall’accesso ai diritti fondamentali e quelli di cittadinanza (come fanno alcuni movimenti xenofobi e populisti). Il testo è anche una sfida per l’Europa, che per secoli ha usato esplicitamente, e poi implicitamente, la religione cristiana (e i suoi prodotti culturali) come base della comunanza di genere per costruire una fratellanza «europea», e l’islam e il paganesimo (poi diventato il colore della pelle, quando i pagani si sono convertiti al cristianesimo) come base per identificare «l’altro», il che permette di stabilire una differenza specifica.
Il testo ci fa pensare: come voteremo nelle elezioni europee?
Votare crea fratellanza
Questo passaggio crea un’alterità: ci sono quelli che non possono votare perché non fanno parte del gruppo, anche se vivono tra di noi da decenni. E quindi: voteremo con la logica dello «scontro delle civiltà», immaginandoci come dei cavalieri racchiusi in qualche sistema massiccio di fortificazioni, cercando dei rappresentanti che ci proteggeranno dalle invasioni dei «pagani» o dei «musulmani» (anche se talvolta vengono chiamati con altri termini, per correttezza politica)?
O voteremo per delle persone che vogliono rafforzare il legame tra gli europei, ma che osano parlare con rispetto dei confini dell’Europa e dei non europei che vivono tra di noi, consci che le differenze sono fonte di ricchezza culturale e di scambi fruttuosi, e non necessariamente segno di conflitti o ostilità?
Oseremo chiedere dai nostri rappresentanti di non andare a Bruxelles con la mentalità dell’Europa-fortezza, ma pronti ad ascoltare coloro che non possono votare ma devono essere rappresentati, secondo il principio democratico (perché fanno troppo parte dell’Europa per non essere toccati dalle decisioni del potere), cioè quelle persone che sono nate tra noi – o vivono da tanto tempo in Europa –, ma tuttavia fanno grande fatica a diventare cittadini europei?
Li inviteremo ad aprire il cuore ai cosiddetti «extracomunitari», che bussano alla porta dell’UE volendo fare parte del «noi» europeo, una fratellanza confinata, sì, ma non chiusa o aperta solo agli «espatriati» ricchi? Questi stranieri non sono certamente degli extraterrestri, ma dei potenziali e futuri fratelli, se siamo disposti a fare spazio attorno al nostro tavolo.
I fratelli non devono essere tutti consanguinei. Lo straniero lo possiamo adottare, come nelle grandi famiglie dell’antica Roma. La relazione sarà a volte difficile, come spesso dimostra la Bibbia, raccontandoci tanti rapporti conflittuali di fratellanza, ma è molto più bella e umana che quella tra il pater familias e la servitù.
Possiamo ovviamente trattare gli «extracomunitari» come subalterni, creare dei meteci, buttare via il valore dell’uguaglianza e della reciprocità, illudendoci che la loro presenza dentro i nostri confini rimarrà ben confinata, e che li potremo mandare oltre la frontiera «prossimamente» perché la migrazione è una «crisi», una cosa «temporanea» che con la magia di qualcuno forte sparirà.
Ma possiamo anche fare collassare, gentilmente e saggiamente, i confini interni tra «comunitario» ed «extracomunitario», tra «fratello» e «straniero», riconoscendo il valore e la bellezza dell’altro, e concedendo diritti. E se non fosse per rendere più trasparenti e alleggerire i confini interni dell’Europa, ed entrare in dialogo con i vicini, a che cosa servirebbero le elezioni europee? Ce lo dice anche l’edificio dell’Europarlamento a Strasburgo, fatto di vetro e non di pietra bella ma massiccia (come quello maltese).
René Micallef* è docente di Teologia morale alla Pontificia università gregoriana.