Una sola terra… e i tanti confini. Dov'è finita la solidarietà?
Si dice che una farfalla può battere le ali in
qualche luogo nel mondo e dare inizio a un uragano, o deviare una tempesta
verso una città. Il complesso intreccio di fattori che influiscono sul clima
rende difficile (ma non impossibile!) lo studio dei cambiamenti climatici o le
previsioni del tempo, e al contempo ci dà un senso forte dei legami tra l’essere
umano e la natura. Come dice papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ (LS),
tutti viviamo in una «casa comune» e «tutto nel mondo è intimamente connesso» (LS
16; cf. 117, 138).
1. Uniti e separati
Nel primo capitolo della Genesi, Dio crea il mondo separando e distinguendo le cose. Eppure crea una sola terra. L’essere umano fa parte di questa creazione, ma avendo in sé il respiro vitale di Dio, è dotato di libertà e ragione. Questo fatto colloca l’uomo in una posizione centrale nel cosmo, separandolo dal resto della natura, ma non giustifica un atteggiamento arrogante e violento verso di essa — quello di sfruttare e distruggere il creato quando pare e piace. Piuttosto, questo soffio divino che aleggia sull’abisso e anima la persona umana ci svela una vocazione di prendere cura delle altre persone e custodire le altre creature.
Certamente, questo non vuole dire una ingenua armonia tra l’essere umano e gli altri esseri: siamo esseri che sognano e realizzano progetti per noi stessi e per la società umana, e questo vuol dire modificare e plasmare il mondo attorno a noi. Distruggiamo i batteri per sopravvivere alle malattie, macelliamo gli animali per fare crescere le nostre famiglie, tagliamo alberi per costruire case e accendere fuochi che ci permettono di vivere nei luoghi meno ospitali del pianeta.
Non saremo mai meramente degli animali fra gli altri animali su questa terra, accettando fatalmente il nostro «destino», ma continueremo a sognare, a plasmare, a trasformare gli altri esseri intorno a noi per vivere meglio, per creare l’economia che sostiene una vita degna (oggi si parla addirittura di una nuova era geologica, l’«antropocene»).
Ma ovviamente, se questa separazione e quest’uso strumentale della natura diventa una minaccia per la razza umana e per le generazioni future, se lo sfruttamento sistematico e massivo del creato ci rende degli esseri violenti e quindi inumani (perché incapaci di percepire la sacramentalità e l’immenso valore del creato), allora questo baratro che si riapre tra lo spirito umano e la natura diventa inaccettabile, immorale.
2. Confini e baratri
Per realizzare più efficacemente i loro sogni e i loro progetti per trasformare la natura, le famiglie umane hanno eretto dei recinti e dichiarato «propri» dei terreni che da Dio furono date in custodia a tutto il genere umano. Ad un altro livello, le città, e poi le nazioni, hanno segnato i confini del «loro» territorio. Non c’è dubbio che le separazioni tra campi e tra paesi abbiano una certa utilità. Il problema è quando vengono assolutizzati questi confini, quando si trasformano in abissi che servono per escludere e marginalizzare i più vulnerabili.
È la stessa mentalità del dominio assoluto sulla terra che sta dietro alla crisi ecologica — la devastazione dei boschi, l’inquinamento delle acque, la resistenza ad ogni tentativo di regolamentare e ridurre l’uso dei combustibili fossili e i gas a effetto serra — e alla crisi umanitaria dei migranti forzati. Viviamo in una era dove più dell’80% dei rifugiati nel mondo vivono nell’indigenza nei paesi più poveri, perché i paesi «sviluppati» hanno sbarrato la loro strada, lasciandoli morire nei mari e nei deserti, o in preda ai trafficanti.
Ma è il colmo del cinismo sdegnarsi dei delitti di chi fa il traffico e la tratta degli esseri umano, quando nessuna ambasciata attraverso vie ordinarie concederebbe un visto per un paese ricco, per una richiesta d’asilo quando nel tuo paese cadono le bombe e la gente cerca di sterminare la tua famiglia (e ricordiamo che ogni rifugiato ha questo diritto, di recarsi in un paese sicuro e fare tale richiesta: ci siamo impegnati legalmente a garantire tale diritto dopo che negli anni Trenta erano stati respinti o uccisi migliaia e milioni di ebrei. Non si tratta di carità, ma di semplice decenza umana, e di rispetto per i trattati che abbiamo firmato).
Un continente come l’Europa (che negli anni della miseria, verso la fine della Seconda guerra mondiale, seppe accogliere e gestire più di 12 milioni di sfollati) oggi si crede incapace di accogliere 1,5 milioni di profughi siriani, quando il Libano e la Giordania (paesi con 4,5 e 6,4 milioni di abitanti, rispettivamente) ne accolgono molti di più. Sicuramente sono reali alcuni dei problemi e delle paure che esperimentano le comunità che accolgono gli stranieri, specialmente perché anche nelle nostre città e nei paesi ricchi ci sono confini e baratri tra i quartieri ricchi e quelli poveri, e la gran parte dei migranti forzati si ritrova a vivere, guarda caso, in quelli poveri.
Ma dov’è finita la solidarietà? Siamo veramente una sola terra? Come dice papa Francesco, «oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (LS 49).
3. Gli sfollati ambientali
Abbiamo parlato della mentalità dominatrice, che crea confini escludenti per poter possedere, spremere e sfruttare la terra in modo. La creazione extra-umana e i migranti forzati sono quelli su cui ricadono gli effetti nefasti di questa mentalità, e si ritrovano riuniti in questa triste esperienza. Ma c’è un altro collegamento tra queste due realtà. Oltre i rifugiati «DOC» — quelli che rientrano negli stretti criteri della Convenzione di Ginevra del 1951 — ci sono tante persone che si sentono obbligate, a causa di una moltitudine di fattori, a lasciare le loro terre e i loro paesi perché non riescono più a dare una vita degna alle loro famiglie in quei luoghi.
Molti di questi fattori sono collegati intimamente ai cambiamenti climatici, all’inquinamento, e allo sfruttamento eccessivo dei boschi (deforestazione), dei terreni agricoli (desertificazione, riduzione di fertilità dei campi a causa della crescente salinità dei fiumi) o delle riserve ittiche (collasso della pesca in alcune parti del mondo).
Esistono quindi gli sfollati (per cause principalmente) ambientali, o le migrazioni (principalmente) eco-indotte. Ci sono milioni di persone che si spostano verso le città (nei loro paesi, o nei paesi vicini) per trovare lavoro e riparo, a causa del degrado lento e costante dell’ambiente che da generazioni gli dava da mangiare, o a causa dell’improvvisa devastazione provocata da inondazioni, uragani e altre catastrofi naturali intensificati dai cambiamenti climatici antropogenici.
LS se ne parla ai nn. 25, 134 e 175. E nel n. 51, il papa parla addirittura del «debito ecologico», soprattutto tra il Nord e il Sud. Molti dei migranti «economici» che si spostano da città in città, nell’Africa o in America Latina o in Asia, fino ad arrivare (in pochi) ad un paese ricco, sono anche le vittime del degrado ambientale legati a stili di vita e di consumo che noi possiamo permetterci solo a scapito di altri.
Il papa insiste più volte che non ci sono soluzioni facili o precostituite per risolvere la crisi ecologica (cf. LS 20, 60, 200). Non ci sono neanche soluzioni facili ed immediate alla crisi umanitaria dei migranti forzati e degli sfollati ambientali. Ma forse serve ricordarsi che, al di là di tutte le separazioni e i confini che abbiamo inventato, e che sono utili, Dio ha creato una sola terra.