Il carisma e l'istituzione: tema e variazioni
Nella vita della Chiesa: quando le persone sono una risorsa
Il riconoscimento e la valorizzazione dei carismi,
indispensabili perché il popolo di Dio torni davvero a essere il soggetto
principale della missione della Chiesa, restano ancora pesantemente
condizionati da molti equivoci. Lo è, a dire il vero, già l’asserto or ora dichiarato, per il quale il principale
soggetto della missione della Chiesa sarebbe
il popolo di Dio e
non il vescovo. E questo nonostante che Lumen
gentium definisca l’intero
corpo dei cristiani come “popolo messianico”
e “strumento della redenzione”, e nonostante che il Codice di diritto canonico investa tutti
i fedeli della più grande
di tutte le responsabilità che la Chiesa ha nei confronti del mondo, cioè il compito di evangelizzare: “Il compito
dell’evangelizzazione …dovere fondamentale del popolo di Dio” (can. 781).
Nonostante sia stato spesso denunciata, stenta a morire anche l’idea che le istituzioni della Chiesa nulla abbiano a che fare con i carismi, e che l’attività carismatica sia ovviamente estranea o contrapposta alle attività istituzionali della Chiesa. Per smentirla basta ricordare che le istituzioni fondamentali della Chiesa sono basate sui sacramenti del battesimo, dell’ordine e del matrimonio, che sono azione divina nel cuore dell’uomo, tesa a trasformarlo dotandolo di una grazia specifica, cioè di un carisma.
Il carisma nell’ordinario
L’impressione diffusa, poi, che i carismi debbano svelarsi per qualche loro connotazione fuori dell’ordinario, ormai da nessuno dichiarata esplicitamente, opera nel sottofondo così efficacemente da aver permesso ai pastoralisti, ai moralisti e ai teologi in genere di studiare e progettare la missione della Chiesa senza prestare alcuna attenzione a quei carismi, diffusissimi e di grande importanza, che sono inscritti nelle competenze professionali e nelle esperienze acquisite dai fedeli nella loro operosità quotidiana, come se queste nulla avessero a che fare con i doni dello Spirito che formano la personalità del fedele.
Il superamento di questi equivoci deve venire da un’impostazione della visione della Chiesa che non si arresti alla considerazione delle sue istituzioni, quasi che sul suo vivere quotidiano, non inscritto nel quadro istituzionale ecclesiastico, oppure operante dentro le istituzioni civili, l’ecclesiologia nulla avesse da dire: “Quod non est in registro non est in mundo”.
L’appassionata ricerca di una possibile definizione adeguata della Chiesa ha inseguito molte categorie, tutte dotate di una loro fecondità, come comunione, società, comunità, popolo, corpo, corpo di Cristo. Anche la categoria di “persona” è apparsa spesso sulla scena: si ricorderà degli anni Sessanta il bel libro Una mystica persona di Heribert Műhlen. Ma poco si sono considerate le “persone”, come uomini e donne in carne e ossa, nonostante l’ovvio riconoscimento che la Chiesa esiste solo se alcune “persone” si coinvolgono reciprocamente nella comunicazione della fede.
Detto questo, bisognerebbe riconoscere che ogni nuova persona che entri nella Chiesa vi apporta la sua singolare dotazione carismatica, contribuendo così a trasformarne il volto intero e determinare di sé la sua azione nel mondo. Dopo il celebre saggio di Von Balthasar Chi è la Chiesa?, Joseph Komonchak ha intitolato un suo recente saggio Who are the Church? che, tradotto, suonerebbe in maniera un po’ bizzarra: “Chi sono (o siamo) la Chiesa?”.
Per parlare adeguatamente dell’apporto dei carismi alla forma della Chiesa sarebbe opportuno cominciare utilizzando gli schemi tipologici elementari, con cui abitualmente si definiscono le singolarità dei diversi tipi umani. Il concetto di carisma si differenzia da quello di istituzione, infatti, perché dice un’azione dello Spirito Santo nell’interiorità del credente, che ne determina in modo nuovo la personalità, dal di dentro della sua esperienza vitale. Tutto in lui sarà invaso da quel carisma dei carismi, che è la fede.
Già l’essere donna o essere uomo diventerà, quindi, una differenza anche carismaticamente determinata dalla determinazione della fede. L’essere giovane o l’essere vecchio non è un dato indifferente in rapporto alla propria collocazione nella Chiesa e la partecipazione alla sua missione.
Un rapporto complesso
Essere dotati di un alto grado di istruzione, oppure essere dotati di un alto sapere pratico, contribuisce a determinare personalità diverse, che apportano alla vita ecclesiale diverse dotazioni carismatiche. Essere contadino o magistrato, manovale dell’edilizia o imprenditore, insegnante o cuoco, medico o impiegato comunale, meccanico o ingegnere spaziale non possono essere considerati dati irrilevanti, se è vero che la fede investe la totalità della persona.
I doni dello Spirito, i cammini di perfezione e la santità, come la multiformità della missione non sono determinati solo dalla posizione istituzionale del fedele nella Chiesa. La vita, e la vita di fede, viene prima del suo ordinamento.
Per questo, una volta censurata l’ipotesi di un’alternativa fra carisma e istituzione, bisogna affrontare seriamente il complesso rapporto fra i due. Ci sono, infatti, anche situazioni nelle quali, di fatto, istituzione e carisma divaricano. Indicherei solo due esempi. Ci sono vescovi dediti a compiti istituzionali, per esempio all’amministrazione dei beni della Chiesa, che non hanno molto a che vedere con il carisma del ministero episcopale.
Un secondo esempio è assai drammatico: ci sono situazioni matrimoniali istituzionalmente corrette, nelle quali il carisma dell’amore reciproco non c’è, e ci sono situazioni istituzionalmente scorrette, nelle quali l’amore famigliare è realmente vissuto. Ma il problema più di fondo per la Chiesa resta ancora quello di un suo ordinamento, tuttora incapace di dare voce in capitolo, in una vera struttura sinodale di carattere decisionale, ai carismi dei fedeli comuni, perdendo in tal modo, nell’efficacia del suo funzionamento, le grandi ricchezze di attitudini, competenze ed esperienze nelle quali agisce e si manifesta l’azione dello Spirito.
Nella morale fondamentale: un nodo imprescindibile, una tensione feconda
L’applicazione del binomio carisma-istituzione all’etica implica anzitutto la considerazione della radice antropologica da cui tale binomio trae origine. Il suo fondamento ultimo va infatti ricercato nella persona, la cui unità originaria non implica uniformità, ma è costituita da una differenza, quella tra spirito e corpo, i quali vanno intesi non come elementi del tutto autonomi che confluiscono successivamente in unità – come vogliono le posizioni dualiste –, ma come dimensioni costitutive della stessa realtà.
La compresenza di queste due dimensioni non è tuttavia del tutto pacifica: a spirito e corpo corrispondono istanze diverse legate alla natura dell’uno e dell’altro, che danno origine a una situazione tensionale. Mentre infatti lo spirito tende al superamento dei limiti spazio-temporali e ad esaltare l’interiorità umana, e in quanto tale de-situa la persona proiettandola costantemente oltre se stessa, il corpo la situa, circoscrivendola entro uno spazio e un tempo definiti e obbligandola a fare concretamente i conti con i propri limiti. La dialettica tra le due dimensioni appare inevitabile. E tuttavia, lungi dall’assumere connotati di radicale opposizione, diventa in definitiva sorgente di reciproco arricchimento.
La tensione tra spirito e legge
Il rapporto tra carisma e istituzione affonda le proprie radici, in ultima analisi, proprio in questo dato antropologico. Se vale il principio secondo il quale agere sequitur esse, l’agire morale, in quanto espressione di un soggetto insieme spirituale e corporeo, riflette (e non può che riflettere) questa dialettica. Le dinamiche che qualificano in modo specifico l’impianto dell’eticità rinviano al rapporto tra l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo dell’agire, che viene declinato nei rapporti tra coscienza e norma, tra atteggiamento buono e comportamento giusto (o retto), tra intenzionalità ed efficacia storica; in sintesi, tra spirito e legge.
La ragione ultima della moralità va senz’altro rintracciata nel mondo interiore della persona, perciò nello spirito che anima di sé la decisione e nel quale si rende trasparente il coinvolgimento della persona nella concretezza dell’azione. Ma lo spirito, in quanto espressione della persona, che è realtà strutturalmente relazionale, esige il ricorso a un dato oggettivo – il mondo dei valori e delle norme – il quale fornisce le condizioni per il corretto sviluppo delle relazioni interpersonali. Si determina così una circolarità virtuosa tra spirito e legge; anche se si tratta di una circolarità non perfettamente bilaterale, perché il primato è dello spirito, e l’adesione alla legge costituisce un segno importante ma non univoco di valutazione della moralità.
La conferma di questo assunto viene dalla teoria dell’opzione fondamentale, la quale evidenzia con chiarezza, nella determinazione dell’eticità, l’importanza primaria del progetto di vita, ma rinvia anche alla sua necessaria mediazione nelle scelte particolari quotidiane, riconoscendo peraltro che tra le due realtà non si dà perfetta equivalenza. Le scelte particolari infatti non sono sempre e necessariamente espressione della scelta fondamentale e in sintonia con essa, la quale proprio per questo può (normalmente attraverso un processo graduale di segno opposto) venire ribaltata.
Carisma e istituzione manifestano dunque, sul terreno dell’etica, la loro indispensabile correlazione, pur nel riconoscimento della distinzione dei rispettivi ambiti e nell’ammissione della presenza di una gerarchia di valori. Questa assegnando al carisma, cioè allo spirito, il primato (non rinunciando, in altri termini, a evidenziare la priorità della coscienza, dell’intenzionalità e dell’atteggiamento buono), mette tuttavia nel contempo in luce l’importanza dell’istituzione, rendendo trasparente come la moralità comporti, nella sua piena espressione, l’implicazione dei due fattori.
La “novità” della morale evangelica
La dialettica tra carisma e istituzione trova, a sua volta, riscontro anche nell’ambito del messaggio evangelico. L’aperta polemica nei confronti del formalismo farisaico o l’affermazione che a contare nella valutazione del comportamento umano non è ciò che entra nella bocca dell’uomo ma ciò che esce dal suo cuore (Mt 15,15-20; Mc 7,15) evidenziano con chiarezza il primato assegnato dalla morale evangelica allo spirito o al mondo interiore dell’uomo.
Questo primato non implica, tuttavia, rifiuto di attenzione alla legge, la quale conserva intatta la propria validità: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17). Le stesse antitesi del discorso della montagna (“Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico”, Mt 5,21-48), che sembrano opporre la novità inaugurata da Gesù ad alcune istanze della legge mosaica, rappresentano in realtà un “portare la legge al suo compimento” (al suo pleroma). La “novità” di Gesù consiste dunque piuttosto nel dare corso a una “giustizia migliore” o “superiore” (Mt 5,20), cioè nell’adesione interiore a ciò che la legge propone, privilegiando lo spirito e incentrando l’agire attorno al comandamento dell’amore.
Il primato è assegnato in questo caso al carisma, senza che questo debba significare la rinuncia a fare i conti con l’istituzione, con gli aspetti più specificamente normativi dell’esperienza morale, che rappresentano un fattore permanente (e necessario) di confronto per l’agire umano. Il rapporto tra carisma e istituzione trova, infine, piena esplicitazione nella relazione tra le norme-precetto, che segnano il limite da non oltrepassare e obbligano perciò a un assenso senza eccezioni e senza limitazioni, e norme escatologico-profetiche, che rinviano costantemente oltre, perché hanno come obiettivo il perseguimento dell’ideale di perfezione e conferiscono, di conseguenza, alla condotta del credente il carattere di un cammino di conversione permanente.
La dialettica è dunque qui tra due istanze, che hanno entrambe un carattere normativo, ma che al tempo stesso mettono in luce la strutturale tensione che caratterizza l’esperienza cristiana: che non può ridursi al rispetto di una serie di divieti, ma sollecita una costante apertura al bene i cui contenuti non sono mai del tutto circoscrivibili, perché coincidono con la carità, essenza stessa del Dio trinitario.
Le conseguenze per la definizione dell’eticità
Il dinamismo dell’etica in generale, e di quella cristiana in particolare, è dunque radicalmente riconducibile alla dialettica tra carisma e istituzione. Questo conferisce una particolare duttilità alla valutazione della condotta morale, dove il contenuto materiale dell’azione risulta essere una spia (non univoca) della moralità soggettiva, la quale rinvia al mondo interiore della persona e può essere colta (in termini mai radicali e definitivi) dalla stessa persona coinvolta. L’esortazione di Gesù a “non giudicare” (e a non giudicarsi) per “non essere giudicati” scaturisce da questa constatazione. Come, d’altronde, l’insistente invito di papa Francesco a esercitare la misericordia – è questo il messaggio del prossimo giubileo – non va confuso con una sorta di buonismo irenico, ma è espressione di un essenziale dato antropologico, la percezione dell’impossibilità di formulare un giudizio radicale e definitivo su qualsiasi comportamento umano.
Ma il discorso non deve essere ristretto soltanto a questo ambito. Ha implicazioni importanti anche nell’ambito della definizione della verità morale. Il dualismo, che ha caratterizzato in passato (e tuttora caratterizza in larga misura) questa definizione, e che tende a separare nettamente l’aspetto oggettivo da quello soggettivo, riconducendo di fatto l’eticità al primo e considerando il secondo soltanto in fase applicativa, è insufficiente.
Non è questa, infatti, la specificità della verità morale, che non si identifica con la verità metafisica, ma include (e non può che includere) la soggettività come elemento costitutivo, essendo l’eticità radicata, in ultima analisi, nella coscienza del soggetto e dovendo tuttavia contemporaneamente fare riferimento a un dato oggettivo. Il rapporto tra carisma e istituzione rappresenta pertanto il connotato fondamentale del fatto etico, poiché appartiene alla stessa definizione della sua identità.
Il politico tra carisma e istituzione: “con” e “oltre” Max Weber
L’articolazione politica del binomio
carisma-istituzione guida quasi immediatamente il pensiero alle modalità di
legittimazione del potere e alla sua descrizione attraverso “tipi ideali”
proposta da Max Weber. Figure certamente isolabili sotto il profilo descrittivo
della scienza, ma diversamente intrecciate nelle espressioni concrete
individuabili nella storia umana.
È ancora necessario pensare “con” Weber alla tensione carismatica e istituzionale, soprattutto per quegli elementi in grado di interpretare attuali tendenze operanti sul nostro scenario politico-culturale, ma anche andare “oltre” l’autorevole filosofo tedesco. Tra l’altro il suo pensiero è ancora tutto raccolto nella forma moderna dello stato nazionale, basata sulla ricerca del potere per l’esercizio legittimo della forza nei limiti di un territorio e di un popolo. Tale quadro politico è trasceso dalla contemporanea globalizzazione, che ha spogliato lo stato «di gran parte della sua sovranità un tempo onnicomprensiva, “totale”, posto dinanzi a una situazione “senza alternative” molto più spesso di quanto non sia libero di scegliere le proprie politiche e pressato da forze esterne anziché dalle preferenze democraticamente espresse dei suoi cittadini» (Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2003, XIV).
Oltre la legittimazione della forza: l’autorevolezza delle persone
Secondo Weber, la legittimazione del potere si esprime attraverso tre principali modalità presenti nella storia umana [cfr. La politica come professione (1919), in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1948, pp. 49-50]:
– l’“autorità del costume”, cioè la tradizione consuetudinaria, radicata sul carattere sacro delle istituzioni;
– l’autorità della “legalità” «in forza della fede nella validità della norma di legge e della “competenza” obiettiva fondata su regole razionalmente formulate», cioè l’istituzione, con le sue funzioni e i suoi rappresentanti;
– l’“autorità del dono di grazia (Gnadengabe)”, cioè il carisma personale espresso dal leader sulla base di un’intima “vocazione” (Beruf) e il riconoscimento da parte dei suoi seguaci.
Certamente, per quanto concerne la politica, la prima forma risulta radicalmente superata nel trapasso dalla società di ancien regime allo stato moderno basato sul sistema delle istituzioni democratiche e della modalità elettiva dei suoi capi.
Tuttavia, ponendosi già “oltre” la lezione weberiana, il livello tradizionale, spogliato dall’aura “sacrale”, potrebbe richiamare l’orientamento degli uomini alla socialità e alla sua organizzazione politica, insufficiente però a determinare le ragioni obiettive che presiedono al governo della vita della moltitudine.
Il secondo livello, carismatico, nel rispetto costituzionale e parlamentare, indica la figura del leader partitico che “aspira” al potere di governo. La terza, tipica dello “stato moderno”, inquadra l’ordinamento entro il quale circoscrivere e orientare il patto civile, per conferire concretezza e progettualità al legame sociale attraverso l’esercizio del potere legittimo. In questa prospettiva l’assetto delle istituzioni e la personalità propria di chi è chiamato all’esercizio del governo non si pongono in alternativa, ma sono chiamate a interagire, alla luce di un legame, alla base della vita pubblica, più profondo rispetto al patto stabilito e di un’efficace azione determinata da fini storici obiettivi e condivisi.
Accanto al rigoroso rispetto dell’assetto costituzionale, occorre coltivare quelle che Weber individua come qualità “sommamente decisive” per l’uomo politico, in ragione di quella “autorevolezza” personale, che è la matrice di senso su cui iscrivere lo stesso riconoscimento dell’autorità e del potere. Tali qualità sono individuate nella «passione, senso di responsabilità, lungimiranza».
La prima impone una dedizione appassionata (e trasparente) alla causa (Sache). La seconda istituisce il politico come soggetto accreditato per dare azione a tale causa. La lungimiranza, specifica virtù del politico, esprime la «capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore», creando un opportuno spazio di distanza riflessiva in vista di una migliore attitudine valutativa e operativa. «La politica – ricordava Weber nel 1919 – si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell’anima. E tuttavia la dedizione alla politica, se questa non deve essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente umana, può nascere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel fermo controllo del proprio animo che caratterizza il politico appassionato e lo distingue dai dilettanti della politica che semplicemente “si agitano a vuoto”, è solo possibile attraverso l’attitudine alla distanza in tutti i sensi della parola» (ivi, 101-102).
Oltre l’opposizione: un’etica politica di principi e responsabilità
Quale dunque l’ethos della politica intesa come dedizione alla causa? Qui entra in gioco la celebre distinzione weberiana tra “convinzione” personale e “responsabilità” civile-politica. Con essa si riformula il binomio tra dimensione carismatica, che impone l’obbedienza della persona a principi assoluti, e dimensione istituzionale, che impone di rispondere alle e delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni.
È noto come, in sede di teoria etica normativa, i due modelli siano stati assunti come oppositivi e, inoltre, più a monte, postulino una necessaria distinzione tra razionalità etica e razionalità politica. Tuttavia Weber fa notare che l’etica della “convinzione” (Gesinnungsethik) non coincide con la mancanza di assunzione di responsabilità, né l’etica della “responsabilità” (Verantwortungsethik) con un’azione motivata unicamente dall’efficienza del risultato obiettivo. Non esiste a livello esistenziale un agire in base a principi che non sappia tenere conto anche degli effetti, né un agire fortemente attento agli effetti prodotti che, tuttavia, non possa prescindere da una base valoriale personale. Dopo aver mostrato la separazione concettuale, Weber opera cioè la loro ricomposizione esistenziale: «L’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la vocazione alla politica» (ivi, 119).
Weber gioca sul termine Beruf che, in tedesco, include la doppia semantica “professionale” e “vocazionale”. L’esercizio professionale, secondo le norme istituzionali, ha bisogno di verificare le proprie azioni sulle conseguenze positive o negative, mentre l’idea carismatica della vocazione alla politica si sviluppa anche partire da principi cui il singolo conferisce un’adesione personale.
Oltre il populismo e la rigidità istituzionale: l’oscillazione polare di carisma e istituzione
Sin qui la lezione weberiana. Ma l’oltrepassamento richiesto dall’attuale condizione della politica sembra postulare la ricomposizione di carisma e istituzione, quasi nel senso dato da Guardini, di “opposizioni polari” più che realtà antitetiche. In tale ambito risulta possibile il pensiero e l’azione politica secondo il suo orientamento intenzionale (e convinto) al bene comune. Questa oscillazione contribuisce a rimettere in assetto ciò che di ciascuno di questi elementi risulta destabilizzante. Sul versante del carisma, la preoccupante declinazione populistica dell’esercizio politico; sull’altro, la necessaria capacità progettuale da innestare nelle istituzioni in vista di una migliore (e non solo efficiente o efficace) possibilità operativa delle stesse e un più chiaro orientamento lungimirante.
In questa prospettiva, l’«oltre Max Weber» si pone nell’evidente ridimensionamento (o svuotamento) del peso ideologico dei partiti del dopo-guerra, progressivamente impostosi in Italia già alla fine degli anni Ottanta. A tale processo ha corrisposto l’emergere di forze politiche e, soprattutto, di figure di leadership (o aspiranti a essa) fortemente caratterizzate da tratti populistici. Una forma di politica tinta di spinte demagogiche, retoricamente persuasive e fortemente carezzanti la sensibilità “emozionale” dell’elettorato. Essa sembra essere l’ultima evoluzione di una concezione che esalta la dinamica carismatica come portatrice di una specifica “vocazione” per lo svecchiamento dell’apparato statale (e degli stessi partiti “tradizionali”) in vista delle riforme improcrastinabili per la vita civile e pubblica, in talune espressioni non senza forzare le stesse regole istituzionali.
Oltre la polarità carisma-istituzione: la cittadinanza
La ricomposizione di carisma e istituzione trova il suo orizzonte di riferimento in un humus di più convinta cittadinanza, che coinvolga chi governa e chi è governato. Su di esso si coltiva la personalità e il carisma di chi ambisce alla guida della comunità politica, ma individua anche un preciso impegno condiviso da parte di tutte le forze politiche democratiche. L’impulso carismatico, inserito nel quadro istituzionale, necessita pertanto di un più chiaro orientamento da una prospettiva centrata sull’autorità politica e sull’esercizio del potere come “assicurativo” del bene comune per i consociati, a una concezione più “partecipativa” del bene comune, cioè implicante il coinvolgimento di tutte le espressioni della società, che ne danno ricchezza umana e possibilità di futuro, con la promozione di soggettività politicamente attive.
Il carisma politico oggi richiesto è certamente la capacità di trovare risposte innovative, ma anche la valorizzazione e la circolazione di dinamiche virtuose, già presenti nel tessuto civile, che facciano da stimolo alle stesse istituzioni per individuare pratiche comuni di vita attente al bene di tutti e di ciascuno.
L’uscita dalla stagnazione (che non è solo economica, ma anche politica) richiede, pertanto, la “professionalità carismatica” del politico per “saper fare” ciò che si richiede nel momento. E questo tuttavia attraverso più limpidi processi di inclusione delle ricchezze di pensiero e di azione presenti nella società civile; attraverso la capacità di integrare, in una forma di sussidiarietà virtuosa improntata alla più costruttiva solidarietà, quanto è già in atto per la rigenerazione del legame sociale. Ma anche, fuggendo la tentazione efficientistica del decisionismo a corto respiro, attraverso un lavoro lungimirante per abilitare e far crescere nuove competenze e modalità partecipative.
Entro la tradizione cristiana
Tale oscillazione di energia costruttiva lungo la polarità carisma-istituzione può far tesoro del pensiero di ispirazione cristiana, attento, più che al “saper fare”, al “saper essere”. Sul versante dell’istituzione, ricordando che la “politica” rappresenta, nel campo del bene comune, quello che la “prudenza”, come virtù, suggerisce per le decisioni individuali secondo il criterio del bene, qui e ora, possibile e doveroso (cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 47, a. 10). E richiamando, accanto alla prudenza, la forza testimoniale della parresia, che non solo sa intuire il nuovo, ma riconosce come atteggiamento del politico la disponibilità a portare il peso (e le conseguenze) della propria azione, anche pagandone personalmente il prezzo. E che sa esprimere la propria forza di novità nell’umile e rispettosa attenzione alla parola dell’altro, nella convinzione che solo in questo modo potrà esigere dall’altro (anche l’avversario politico) altrettanta franchezza e rispetto della verità.
A tale compito di (ri)generazione del legame sociale può ancora servire la lezione del “vecchio” Max Weber: «La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento allo stesso tempo. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile» (Il lavoro intellettuale come professione, 120-121).
Il profilo carismatico dell’economia
Quando si parla di un carisma si parla di gratuità che irrompe nella storia, ci si trova di fronte a occhi diversi che sanno vedere cose belle dove altri vedono solo problemi da risolvere: e così il nuovo arriva nella storia, anche dell’economia.
Il teologo svizzero von Balthasar, tra i più grandi del Novecento, ci dona alcune luci per capire cos’è un carisma. Egli descrive la vita della Chiesa come una dinamica tra diversi “principi” o profili, che continuano nel tempo e rendono vive, in modo idealtipico o archetipico, le esperienze di alcune persone che hanno vissuto a fianco di Gesù nella sua esperienza storica.
In particolare, i due principi fondativi sono per lui costituiti da quello “petrino” e da quello “mariano”. Il principio petrino sottolinea, per Balthasar, soprattutto la componente istituzionale, verticale, gerarchica, giuridica, sacramentale e oggettiva della vita della Chiesa, mentre quello mariano dice la sua natura carismatica, di accoglienza, fraterna, orizzontale e di sequela. Questi due principi a suo avviso non sono in conflitto tra di loro, ma piuttosto in rapporto dinamico e complementare.
La storia della Chiesa può essere per Balthasar raccontata come lo sviluppo e l’intreccio di queste due dimensioni co-essenziali della Chiesa: storia di istituzioni e storia di carismi.
Credo che non solo la storia della Chiesa, ma tutta la storia sociale ed economica possa essere letta come un intreccio di istituzioni e di carismi. Leggiamo l’apporto allo sviluppo delle istituzioni, studiamo la storia delle guerre, dei re, dei mercanti, ma (anche se c’è una minore attenzione storiografica) non possiamo negare il contributo allo sviluppo economico dei carismi, da san Benedetto per la storia dell’Europa, a san Francesco e alla scuola francescana con le teorie del valore dei beni e i monti di pietà come forma di aiuto alle situazioni di indigenza. Studi recenti hanno dimostrato come la maggior parte dei distretti industriali italiani sia sorto nei pressi di un’abbazia, perché dai monaci si andava a imparare il senso e l’organizzazione del lavoro.
E come non leggere la storia del welfare state se non a partire da coloro, come le persone mosse da carismi, che hanno avuto occhi per vedere nuovi bisogni e si sono messi all’opera, costruendo i primi ospedali, le prime scuole? I portatori di carismi sono persone che vedono prima di altri bisogni e cose nuove e si mettono all’opera, dando luogo ad attività economiche innovative. Anche la storia della cooperazione sociale in Europa e in Italia può essere letta come storia del profilo carismatico. Oggi i movimenti di responsabilità sociale d’impresa, la finanza etica, l’economia civile e di comunione… sono tutte espressioni di questo profilo carismatico.
Innovazione e imitazione
Ma per comprendere le caratteristiche di un carisma, la sua azione nella storia ci facciamo aiutare da alcuni studiosi.
Una prima intuizione l’abbiamo dall’economista Schumpeter, che nella sua Teoria dello sviluppo economico (1911) ci ha offerto una delle teorie economiche più suggestive e rilevanti del Novecento, quando ha distinto tra imprenditori “innovatori” e imprenditori “imitatori”. L’imprenditore innovatore è colui che con un’innovazione spezza lo stato stazionario, e con questa innovazione crea valore aggiunto e sviluppo, porta avanti l’economia e la società.
Poi in un secondo momento arrivano, come uno sciame di api richiamate dalla nuova opportunità di profitto, altri imprenditori “imitatori”, che fanno propria quell’innovazione, che da quel momento in poi diventerà parte integrante dell’intero mercato e della società. I profitti in quel settore tendono progressivamente a zero, e l’economia torna presto allo stato stazionario, finché non arrivano altri innovatori, che, con nuove innovazioni, spingeranno avanti “i paletti dello sviluppo economico”, in un nuovo processo di innovazione-imitazione, che è il vero circolo virtuoso creatore di ricchezza e di sviluppo.
Il carisma è una relazione
Nella dinamica sociale è all’opera un meccanismo simile, cioè esiste una dinamica, una rincorsa, tra “carisma” e “istituzione”. Il carismatico innova, vede bisogni insoddisfatti, individua nuove forme di povertà, apre nuove strade alla fraternità, spinge più avanti i “paletti dell’umano” e della civiltà. Poi arriva l’istituzione (lo stato, ad esempio), che imita l’innovatore, fa sua l’innovazione e la fa diventare “normale”, la istituzionalizza.
La dinamica carisma-istituzione è descritta anche da Weber: per lui il carisma è dato a singole persone, che ne sono i depositari, i quali vengono riconosciuti come tali dalle comunità di riferimento. Il carisma è quindi essenzialmente una relazione, un riconoscimento da parte di una comunità che una persona ha dei doni speciali, diversi, non comuni.
Per Weber, poi, il carisma è associato a una tipica forma di autorità, al suo esercizio e legittimazione, e quindi alla leadership e al potere. Il portatore di un carisma è sempre un leader – anche se non vale la relazione contraria. Egli tiene a sottolineare il carattere a-valutativo o “laico” della leadership carismatica: i portatori di carisma possono essere monaci, eroi e profeti, ma anche pirati, criminali, intellettuali e artisti. Il carisma, nei processi tipici in cui storicamente si dispiega, si rivela come una forza trasformatrice e rinnovatrice: “Il carisma costringe alla sottomissione interiore verso ciò che ancora non c’è stato, all’assolutamente unico, e perciò divino… esso è veramente la forza rivoluzionaria specificamente ‘creatrice’ della storia” (Economia e società, 503).
Tale forza rivoluzionaria è destinata, però, a non durare nella storia, a essere un’esperienza provvisoria e transitoria: essendo il carisma incarnato in una singola persona, non è trasferibile ad altri. Il paradosso, infatti, a cui è sottoposto il dominio carismatico, è che mentre si lavora su come renderlo stabile e duraturo si pongono le inevitabili premesse del suo tramonto. Il potere carismatico per Weber è quindi labile, transitorio, e il destino di processi carismatici è legato all’istituzionalizzazione degli stessi e al rientro nel dominio del “quotidiano” e nella routine. Il desiderio di far durare un carisma traducendolo in buone pratiche, regole, codificazioni per farlo vivere oltre la generazione del fondatore, quindi, è la via che spesso conduce alla sua scomparsa.
Weber coglie molto bene il significato di trasformazione della storia che hanno i carismi, e coglie anche la transitorietà di alcune esperienze, sebbene la storia dimostri che il carisma può rimanere vivo seppur istituzionalizzandosi, se sa rinnovarsi continuamente: i tanti ordini religiosi che continuano a stare sulla frontiera delle povertà ci parlano di istituzioni che durano da centinaia di anni e sono sempre nuove nelle loro opere. E queste esperienze dimostrano anche che il carisma non è dato a una sola persona, il fondatore, ma si propaga in ogni persona che in maniera autentica si avvicina a un carisma attratta da esso.
Oggi stiamo esiliando la gratuità dalla vita pubblica, e quindi facciamo più fatica a riconoscere e apprezzare i carismi, ma essi sono all’opera. E come silenziosamente l’opera dei monaci nell’epoca definita “oscura” ha fatto rinascere l’Europa, così oggi i carismi lavorano per una nuova primavera, anche economica.
Bibliografia
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Weber M., Economia e società, Donzelli, Roma 2005.
Il Vangelo e la Chiesa nel sociale
Nella presente sezione di Dialoghi dedicata al tema «carisma e istituzione» rivive una problematica forse non molto definita e piuttosto controversa, tipica degli anni post-conciliari del secolo scorso, ma che ha ancor oggi alcune risonanze, anche se evidentemente non più la stessa forma e la stessa portata: diverse congiunture culturali, intellettuali e teologiche sono nel frattempo mutate.
Nel vivere sociale, la secca incidenza della globalizzazione ha accentuato notevolmente il dato tecnico e pragmatico, lasciando opacizzare la trasparenza antropologica ed etica di molti suoi ambiti, a partire dalla politica e dall’economia e finanza per giungere alla mediatica e alla bioetica, diminuendo notevolmente la rilevanza – e quindi la percezione – della competenza ecclesiale e ancor di più evangelica (cf. P. Carlotti, La virtù e la sua etica. Per l’educazione alla vita buona, LDC, Torino 2013).
Il dato tecnico sembrerebbe esaurire il bisogno: ma può essere veramente così? Oppure «il mondo interiore è rilevante nella valutazione normativa, e fa la differenza per la nostra concezione di ciò che dovremmo essere come cittadini, anche laddove non fa alcuna differenza in termini di effettivo comportamento. […] Perché mai, allora, dovremmo supporre che in uno dei più importanti ambiti della nostra esistenza, quello di cittadini, un guscio vuoto sia tutto ciò di cui abbiamo bisogno? [...] Chi obietta pensa che le nazioni abbiano bisogno di competenza tecnica: pensiero economico, dottrina militare, versatilità nella scienza e nella tecnologia informatica. Dunque le nazioni hanno bisogno di queste cose, ma non hanno bisogno di cuore»? (M. Nussbaum, Emozioni politiche. Perché l'amore conta per la giustizia , Il Mulino, Bologna 2013, 472s).
Nella stessa direzione, Paul Ricoeur aveva confrontato la “poetica” dell’amore con la “prosa” della giustizia, rispettivamente la logica della sovrabbondanza con la logica dell'equivalenza, nella consapevolezza della necessità di entrambe, verso un approccio alla realtà mosso da un “interesse disinteressato” suscitato da un’economia del dono, non solo “economica”. «L’economia del dono sopravanza da tutte le parti l'etica. A un’estremità di questo ventaglio troviamo il simbolismo... della creazione, nel senso fondamentale di donazione originaria dell'esistenza; appartiene a questo simbolismo il primo uso del predicato “buono” applicato in Genesi 1 a tutte le cose create [...] All'estremità opposta del ventaglio di significati in cui si declina l'economia del dono, troviamo il simbolismo, simmetrico a quello della creazione e non meno complesso dei fini ultimi, ove Dio appare la fonte di possibilità sconosciute» (P. Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2007, 32s).
Una nuova autocoscienza ecclesiale
Per altro verso, in molti modi, con la ricorrente fine delle molte “cristianità” la Chiesa è uscita dalla sua cittadella privilegiata e protetta e ha riscoperto il compito di annunciare non tanto se stessa, ma il Vangelo «in modo nuovo, come una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre» (Francesco, Misericordiae vultus, n. 4). È determinante questo giro di volta, che passa dall’ecclesiocentrismo al cristocentrismo, all’annuncio di quel Vangelo che è Gesù Cristo in persona. La concezione della Chiesa come cittadella protetta e privilegiata l’aveva poi resa particolarmente solidale con lo status quo sociale, di fatto esistente e prevalente, di cui si interpretava ultima garante e da cui si attendeva ritorni in benefici e riconoscimenti in privilegi. Era vigente una certa solidarietà tra il trono e l’altare, come era in uso dire, che talora vedeva la “ragion di stato” praticata oltre il suo naturale ambito, con qualche oscillazione in fatto di coerenza e di trasparenza, che ha reso meno luminosa se non opaca la posizione “ufficiale” della Chiesa.
Naturalmente la Chiesa non è mai stata solo la Chiesa gerarchica, al suo interno non sono mai mancate persone che, istituzionalmente irrilevanti o marginali e pur tuttavia realmente Chiesa, non hanno mancato di segnare una traccia convinta e convincente di vita cristiana, fraternamente solidale con l’uomo ultimo nel bisogno e nella necessità. Poveri in aiuto dei poveri, scarsamente provvisti di mezzi materiali, ma altamente dotati in stili di vita umanamente e cristianamente qualificati, quasi a ribadire l’ovvia verità della priorità dell’amore – e non dei suoi mezzi – per la sua autenticità: per essere caritatevoli ci vuole prima di tutto la carità e poi i soldi, e non è vero che senza i soldi non si possa essere caritatevoli e che con i soldi senz’altro lo si possa.
L’insegnamento sociale della Chiesa si è andato progressivamente riallineando con l’evoluzione di questa autocoscienza ecclesiale, anche con le sue alterne, ma alla fin fine anche orientative vicende, che hanno raggiunto un momento significativo con papa Francesco. La Chiesa con il suo insegnamento sociale ha saputo interrogare e anche sfidare i nuovi potentati e le nuove lobby economiche, finanziarie, politiche e mediatiche con riflessioni e pratiche strettamente corrispondenti, attivate anche in revisione sostanziale delle proprie posizioni tradizionali. Questa novità, dovuta – mi sembra – anche a un ascolto più attento e a un dialogo più tempestivo nel frattempo intervenuto tra magistero e teologia, è stata notata e riconosciuta anche da coloro che, dentro e fuori la Chiesa, la desidererebbero più incisiva e più conseguente nel riferimento profetico all’Evangelo e meno incline verso considerazioni “troppo umane”.
Un magistero sociale che evolve
Ne è un esempio emblematico la vicenda del magistero sulla pena di morte, che è culminata con la recente richiesta della sua abolizione da parte di Benedetto XVI e di Francesco, pur stante la relativa accettazione di Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae e l’approvazione di Pio XII. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito del rifiuto della cosiddetta guerra giusta, pur nel delicato e concreto discernimento delle lecite azioni di legittima difesa, come i casi delle ricorrenti e gravi guerre civili ripropongono.
Si pensi pure, per il suo tempo, tempo che continua a essere significativo anche oggi, alla tempestiva recezione, operata dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, dei diritti dell’uomo, la cui “Carta” era stata emanata appena da qualche anno dall’ONU, nonostante il difficoltoso retroterra ecclesiale che li caratterizzava, specialmente alcuni di essi. Anche oggi non tutti nella Chiesa e nella società hanno la stessa disponibilità all’accoglienza concretamente sollecitata da papa Francesco verso il popolo del mare “nostrum”, tale che superi una facile indifferenza di fronte alle disgrazie altrui. È questa profezia quotidiana e possibile una novità della dottrina sociale della Chiesa.
Sul fronte dell’economia e della finanza globale si sono avuti importanti segnali di cambiamento, quando a un’economia segnata dalla logica della massimizzazione del profitto e dello scambio contrattuale si è avuto il coraggio di proporre un’economia del dono e di comunione, tesa in primis alla qualificazione umana e cristiana delle relazioni e delle loro reti, di modo che nell’esercizio della professione e del lavoro non si sia costretti a decurtare o a dimenticare la propria comune umanità. Il crescente “scarto” umano, fatto di povertà endemica e di miseria senza speranza – che il sistema economico induce –, è stato ben identificato e denunciato, non solo enfaticamente, ma prospettando efficacemente alternative oggi praticabili (P. Carlotti, Carità persona e sviluppo. La novità della Caritas in veritate, LAS, Roma 2011).
Anche la questione ecologica, svolta con pertinenza come ecologia umana, cioè come quella riflessione sulla custodia e la salvaguardia del creato che procede dalla considerazione dell’impatto ambientale dell’agire moralmente problematico dell’uomo, è segnale positivo e promettente. Non siamo di fronte a un semplice moralismo, disattento della complessità della questione nelle sue numerose dimensioni variamente tra loro embricate, quanto di fronte al tentativo di una lettura realmente profonda, che coinvolge l’uomo, che col proprio standard e stile di vita è agente ecologico primario. Anche la questione ecologica non può essere solo un guscio vuoto, fatto solo di tecnologie e di tecniche, ha bisogno di un cuore, di un cuore nuovo: non è forse questa la profezia di cui proprio oggi c’è bisogno?
Un'introduzione
Questo secondo numero di «Dialoghi» è dedicato al binomio carisma-istituzione. Può sembrare la concessione a una forma di riflessione “datata”, legata ad altri contesti civili e culturali, come gli anni ’70 del XX secolo. È parso, invece, di estrema attualità individuare in questa tensione un utile filtro interpretativo di dinamiche in atto, in ambito ecclesiale e pubblico, e, insieme, un orizzonte di riferimento orientativo per il futuro.
In prima battuta, la metafora musicale che incornicia il titolo: tema e variazioni, sembra invitare a cogliere, su un base melodica, differenti modalità interpretative: libertà – responsabilità; profezia – governo; fantasia – obbedienza; creatività – tradizione… In ciascuna ri-espressione sono evidenti tensioni e fatiche, ma anche opportunità per leggere sensatamente dinamiche ed esigenze della nostra attualità (cf. il contributo di imminente pubblicazione di G. Brunelli).
Inoltre, come ben evidenziato dalle analisi provenienti dai diversi contributi qui proposti, la polarità carisma-istituzione appare in grado di intercettare chiavi di comprensione e, insieme, indicazioni etiche feconde in campi differenti del vivere insieme, la società, l’economia, la politica, la comunità cristiana.
L’opportunità di arricchire il tessuto istituzionale con la ricchezza dei doni personali riguarda certamente un aspetto imprescindibile per la vita stessa della Chiesa. La parola e i gesti di papa Francesco, a riguardo, offrono la trasparenza di una duplice fedeltà: quella richiesta per la custodia e la crescita della realtà istituzionale della Chiesa, e quella dovuta alla propria libertà interiore, nella consapevolezza del dono particolare dello Spirito concesso a ognuno per l’utilità comune.
L’esemplarità del pontefice, tuttavia, non può occultare, come ben espresso dal contributo di S. Dianich, l’esigenza di riconoscimento e valorizzazione dei doni carismatici da parte dell’intera comunità ecclesiale. Essi, infatti, sono indispensabili perché il popolo di Dio torni davvero a essere il soggetto principale della missione della Chiesa e sviluppare una coerente riflessione sulla natura stessa dell’istituzione ecclesiale. All’interno di questa dinamica virtuosa si pone lo specifico della vita consacrata, tradizionalmente polarizzato sulla dimensione carismatica, ma la qui qualità domanda a tutt’oggi di essere ripensata (cf. il contributo di imminente pubblicazione di C. Corbella).
Il binomio carisma-istituzione intercetta, inoltre, alcune caratteristiche fondanti l’ethos cristiano. Giannino Piana, nel suo testo, le pone in evidenza a partire da un quadro antropologico unitario e relazionale e dalla caratterizzazione dell’etica evangelica nella tensione (e composizione) tra Vangelo e legge, tra interiorità personale e attenzione al dato oggettivo.
L’insegnamento sociale della Chiesa rappresenta un banco di prova particolarmente significativo di una riflessione, ormai ritenuta parte dell’esercizio “istituzionale” del magistero, che tuttavia sin dai suoi inizi ha rappresentato (e rappresenta) un momento particolarmente “carismatico” nell’orientare il giudizio cristiano sul mutamento sociale contemporaneo, spesso in anticipo e con più vigore profetico rispetto alla tradizione accademica della stessa teologia morale (cf. Paolo Carlotti).
Gli altri due contributi allargano la riflessione in ambito politico ed economico. Nel primo caso, muovendosi dalla lezione weberiana su carisma e istituzione, si invita a oltrepassarla per individuare, accanto ai rischi di una eccessiva polarizzazione sull’uno o sull’altro elemento, elementi imprescindibili per orientare il pensiero e l’azione politica nel contesto socio-culturale contemporaneo (Pier Davide Guenzi). Il secondo rilegge la forza del “carisma”, particolarmente espressa secondo la logica della gratuità e del dono, come vettore imprescindibile di rinnovamento dell’economia anche per l’oggi (Alessandra Smerilli).
Al lettore di scoprire nuove “variazioni” sul “tema” o, a partire da quelle offerte nei contributi, dare il proprio apporto per ampliarne la loro comprensione.
La sfida di un’istituzione carismatica nella vita consacrata
Per alcuni, come Hans Küng e – dall’altra parte del globo - Leonardo Boff, carisma e istituzione sono semplicemente inconciliabili: per altri, su posizioni più moderate e improntate all’equilibrio, carisma e istituzione possono essere in un rapporto non solo possibile, ma addirittura fecondo. Ciò può avvenire se i due sono compresi in termini di dono/compito del governo e dono/compito della profezia (G. Costa, «Papa Francesco: Carisma e istituzione», in Aggiornamenti sociali 4/2013). In questo senso né l’uno né l’altro sono qualcosa di privato, conquistato grazie alle proprie capacità e dunque utilizzabile a proprio piacimento come espressione di potere, ma grazia ricevuta per il bene dei singoli e della Chiesa, la cui ricaduta sul mondo contribuisce alla realizzazione del Regno. Dunque entrambi indispensabili a un corpo in buona salute come dovrebbe essere quello della Chiesa.
Due polmoni
Già Giovanni Paolo II sottolineava come i carismi andassero accolti con gratitudine, sia da parte di chi li riceve, sia da parte di tutta la Chiesa in quanto fonte di grazia per l’intero Corpo di Cristo. Tuttavia nessun carisma dispensa dal riferimento ai pastori ai quali spetta il compito del discernimento sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinario (cf. Christifideles laici, n. 24). In un’omelia del 3 giugno 2006 anche papa Benedetto XVI ha ribadito come carisma e istituzione, rimandando l’uno all’altro, siano entrambi essenziali alla vita della Chiesa ma, al contempo, implichino spesso delle forti tensioni e anche, a volte, conflitti. Papa Francesco, immediatamente con la scelta del nome e la sua stessa biografia, mostra come i due poli siano conciliabili e possano realmente essere i due pilastri o, secondo un’illustre citazione, i due polmoni della Chiesa.
Tuttavia le tensioni non possono essere magicamente appianate in quanto nascono dal fatto che, se ogni uomo, come dice il magistero, deve essere fedele a Dio, alla sua grazia e alla chiamata che riceve, questo avviene sempre attraverso concretizzazioni storiche. Esse però – mediate da persone concrete e leggi contingenti – sono destinate, per la loro stessa natura storica, a modificarsi nel tempo. Detto diversamente, le istituzioni che esprimono una chiamata irrevocabile, che diviene poi decisione di vita nei termini di una totale consacrazione a Dio, sono mediazioni umane e, dunque, ontologicamente povere per poter dare forma perfetta alla chiamata divina. Ciò implica che ogni istituzione umana, per quanto ottima, mantenga i limiti propri di tutto ciò che è umano e – nel tentare di esprimere sempre più e sempre meglio la realtà divina cui rimanda – debba cambiare ed evolversi.
Carisma e istituzione: una rilettura in chiave “intersoggettiva”
Il cambio, tuttavia, può essere superficiale o profondo. Non è compito del presente lavoro indicare quali e quanti cambiamenti siano necessari affinché l’istituzione sia in grado di concretizzare nell’attuale contesto la chiamata ricevuta dai singoli, tuttavia sembrerebbe interessante una sua rilettura alla luce della prospettiva intersoggettiva. Infatti si può applicare il rapporto soggetto/oggetto intendendolo come rapporto soggetto/istituzione. A questo proposito un aspetto interessante è legato al rapporto proprio esistente tra istituzione e comunità nella misura in cui l’istituzione dovrebbe favorire e stimolare la comunità. In particolare una Chiesa come realtà viva non si identifica tout court solo con l’istituzione-Chiesa, ma con la comunità ecclesiale (cf. M. Nardello, «Il problema della formazione: un punto di vista ecclesiologico», in Tredimensioni 4 (2007) 1, 19-31, 20-23).
Più volte la psicologia ha evidenziato come il rapporto soggetto/oggetto sia assai delicato e complesso: non esauribile né nella prospettiva intrapsichica, né in quella interpersonale, esso necessita di uno sguardo più ampio, quello intersoggettivo. In questo orizzonte, non solo il soggetto si deve verificare rispetto alla sua adesione o meno all’istituzione, ma anche quest’ultima può essere sia un’opportunità di crescita, sia occasione di involuzione per l’identità del singolo.
Ciò è di fondamentale importanza, nella misura in cui la vocazione divina è presentata normalmente come chiamata a una precisa scelta di vita mediata da una precisa istituzione umana. In questo senso, disattendere le leggi dell’istituzione significa disattendere la chiamata ricevuta, essendoci un legame intrinseco tra le due, ma uguale responsabilità ha l’istituzione rispetto all’aiuto che dà al singolo per vivere concretamente la chiamata ricevuta.
Entrambi, soggetto e istituzione, sono spinti a rispondere con responsabilità alla chiamata divina, interrogandosi sinceramente sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità in ordine, per l’istituzione, alla reale crescita del singolo e, per il singolo, alla reale fedeltà alla chiamata. È evidentemente che, se l’istituzione Chiesa rischia a volte di formare la propria identità e significatività sull’ossequio dei suoi membri, più difficilmente accetterà di rivedere profondamente le istituzioni particolari di cui è formata.
La dinamica istituzionale può accendere il carisma?
Ritorniamo a papa Francesco. I suoi gesti, le sue scelte, i suoi documenti ufficiali e le sue omelie stanno mostrando il suo modo di concepire l’istituzione di cui è a capo. Detto diversamente, nella sua persona si rende sempre più evidente come il carisma possa attivare dinamiche istituzionali che consentono al carisma stesso di fecondare realtà in un modo che, da solo, non potrebbe raggiungere. In papa Francesco l’istituzione diviene carismatica.
In questo modello anche la vita consacrata può trovare una pista interessante per uscire dall’impasse in cui sembra trovarsi. Come? Guardando a papa Francesco e alla sua proposta di concepire il ruolo dell’istituzione (papa, vescovi, istituzioni religiosi) in termini relazionali e rielaborare la propria identità a partire proprio dalla relazione. Detto diversamente: partire dall’identità – chi sei? quali criteri hai per dire che esisti? – per creare nuovi nessi tra il carisma vissuto dai soggetti e l’istituzione ricordando che la persona non agisce bene perché ha conosciuto bene, ma apprende bene perché assorbito in una relazione significativa con l’altro. La propria identità è plasmata dall’incontro con l’altro ben oltre l’accoglienza e l’empatia perché, proprio in questo incontro, è stimolata una diversa sintesi di ciò che si è.
È la prospettiva intersoggettiva che, coinvolgendo veramente l’istituzione nella relazione, può venire in aiuto affinché le persone vivano l’istituzione e nell’’istituzione in termini di promessa di vita e non di lento ma progressivo suicidio della propria identità e della chiamata ricevuta.
Il focus viene posto in questo modo sulla relazione che si vive, e non sulla continua e martellante, quanto inutile, proclamazione delle norme e dei valori. L’internalizzazione di questi ultimi è così il risultato, a volte molto lento, della relazione tra le istituzioni nella loro forma - ma anche le persone che le costituiscono - e chi propone e vive un carisma. Tale relazione, in cui entrambi si giocano in modo sincero senza paura della lotta che ne può scaturire, è il medium di un cambiamento realmente significativo tanto da perdurare nel tempo.
Nello spazio intersoggettivo chi vive il carisma non si trova solo. La presenza di un’istituzione gli permette di avere un nuovo sguardo su ciò che intuisce promettente nei termini del Regno per esplorarlo e viverlo in modo più umanizzante. L’istituzione deve accettare realmente di entrare in contatto empatico col carisma, non per irreggimentarlo, ma per incoraggiarlo, dal di dentro, a diventare adulto secondo il Vangelo. Tale contesto empatico, ben lungi dall’essere una complicità assolutoria, è, al contrario, l’accettazione di condividere dal di dentro ciò che ciascuno vive. Esso si evolve in contesto affettivo intersoggettivo che, chiamando in causa l’Io consistente delle istituzioni (e delle persone che le costituiscono), fa sì che le indicazioni di quest’ultima diventino elementi effettivamente ristrutturanti in quanto preparati con chi ha ricevuto o scelto il carisma, sbocco di una ricerca comune che risponde a un desiderio sincero di essere sempre più espressione di Vangelo.
Evidentemente tutto ciò presuppone un’istituzione capace e decisa a mettersi in gioco, ma anche tanto matura da accettare contrasti e lotte in vista di un più spirituale e umano.