Gaia, la Madre Terra: etica della cura come responsabilità
«Uomo, ascolta! Perché offendi me, tua madre? Perché fai violenza a me che ti ho partorito dalle mie viscere? Perché mi violenti con l’aratro, per farmi rendere il centuplo? Non ti bastano le cose che ti do, senza che tu le estragga con la violenza?» (Alano di Lilla)
Il sottotitolo dell’enciclica si apre con il termine «cura». Esso non appare come un termine tra gli altri (appare, tra l’altro, ben 70 volte all’interno del documento): piuttosto diventa paradigma interpretativo dell’enciclica stessa. Si può affermare che papa Francesco ci propone e ci invita a un’etica della cura. Un’etica della cura che mette subito in rilievo gli aspetti affettivi e relazionali: la terra non è appunto definita solo in quanto tale, ma in quanto madre (cf. LS 1; 92) o sorella (cf. LS 1; 2; 11; 53) o«casa comune» (LS 1; 3; 13; 17; 53; 61; 155; 164; 232; 243).
Possiamo addirittura affermare che si tratta di un’etica della cura integrale, nel senso di interconnessa: non solo tra gli uomini vicini, ma anche tra gli uomini in luoghi distanti e tra gli uomini delle differenti generazioni (mai come ora viviamo in una Madre Terra compromessa da chi ci ha preceduti e lasceremo in eredità una Madre Terra ferita alle future generazioni) e tutte le forme viventi. Un’etica quindi relazionale(e già questo punto di partenza è significativo) e affettiva, com-passionevole.
1. Etica della cura nella teologia ecofemminista
Il paradigma della cura, tuttavia, è già noto alla riflessione teologica a partire dalle istanze della teologia femminista ed in particolare della teologia ecofemminista (il termine compare per la prima volta nel 1974 in uno scritto di Françoise d’Eaubonne, Le féminisme ou la mort). Il movimento ecologista e il movimento femminista, negli anni Settanta, trovarono un terreno comune nell’individuare nella identica radice della cultura del dominio (maschile, patriarcale, gerarchico…) lo sfruttamento sia della donna che della terra. Estremizzando l’idea portante: si proponeva un cambiamento di prospettiva, dal dominio (identificato nel maschile) alla cura (identificato nel femminile).
Il testo in qualche modo fondativo è l’opera di Susan Griffin, Women and Nature: The Roaring Inside Her (1978), in cui si analizza la storia della civiltà occidentale confrontando l’oppressione della natura con quella delle donne.[1]
Il pensiero ecofemminista si sviluppò nel corso degli anni in diverse correnti, ma possiamo rintracciare dei nuclei comuni: il legame donna/natura nella tradizione occidentale (teologica, filosofica, letteraria…), spesso inteso solo come oppressione; la critica al razionalismo puro; il cambiamento di paradigma (etico ma non solo) dal «dominio» alla «cura»; la necessità (urgente) di un nuovo linguaggio simbolico e spirituale; una lettura della realtà indirizzata al cogliere le differenze e le interconnessioni.
Non a caso la teologia femminista, quando incontra le istanze ecologiche, lo fa a partire dal termine «ecologia» come fu inteso da Ellen Swallow, nel 1892, quando lo utilizzò con questa accezione «lo studio di ciò che circonda gli esseri umani nelle conseguenze che produce sulla loro vita» e non nel significato che gli diede Ernest Haeckel che con il lemma «ecologia» – da lui stesso coniato nel 1866 – si riferiva allo studio e alla analisi scientifici di un mondo estraneo ed esterno agli esseri umani e da essi non condizionato.
2. Ripercussioni etico-teologiche
Tali ragionamenti non si limitano a rivendicazioni di parte o ad analisi sociologiche: hanno ripercussioni dirette sulla riflessione etica e la riflessione teologica. In particolar modo nell’opera di Rosemary Radford Ruether dal titolo Gaia and God (trad. it. Gaia e Dio, Queriniana 1995), ma anche in altri testi, è possibile rinvenire due piste estremamente importanti.
Innanzitutto la coscienza umana non deve essere intesa come trascendente ovvero separata dal resto della creazione: al contrario è capacità (dono) che permette all’uomo di armonizzare se stesso con il resto del creato, in vista di un «ordine», di un cosmos, di una bellezza divina. In secondo luogo Dio è considerato in modo preponderante come fonte immanente di vita che sostiene la vita del creato (nella sua complessità, non soltanto nei confronti dell’essere umano) in modo interdipendente.
E se è possibile rintracciare in Laudato si’ alcune istanze, concetti e riflessioni della teologia ecofemminista, d’altra parte è altrettanto vero che è possibile ritrovarne prodromi (relativi all’interconnessione degli esseri viventi, ad esempio) anche in precedenti documenti magisteriali.[2]
Per tornare all’enciclica, mi sembra che siano due gli assi portanti – dal punto di vista morale – del testo: la consapevolezza e la responsabilità.
Il richiamo alla consapevolezza scandisce tutto il testo: dalle situazioni irreversibili, alle situazioni limite, alla necessità di un cambiamento di paradigma, di mentalità, all’urgenza di determinate azioni… La vera ricchezza per la riflessione morale, tuttavia, risiede nella responsabilità: essa è ancora intesa come capacità umana, come capacità razionale ma viene arricchita e completata dalla sfera affettiva, relazionale, simbolica e spirituale. La responsabilità è quindi cura e la cura è responsabilità. È risposta dell’uomo nella sua integrità.
E non si tratta di una prospettiva solo cronologica ma anche kairologica ed escatologica: «Sappiamo infatti che finora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo salvati in speranza» (Rm 8,23).
[1] Cf. per una ricostruzione esaustiva: Sarti M. A., Le ragioni dell’ecofemminismo, il Segnalibro, Torino 1999.
[2] Dati i limiti del presente contributo, rimando all’editoriale di Civiltà Cattolica Francesco, «Custodire l’intera creazione», in La Civiltà Cattolica3960(2015), 537-551.