Che cosa si aspetta una filosofa dalla teologia morale?
Dopo una morte
C’era una volta il Dio dei filosofi. Ai cristiani sembrava un Dio molto diverso dal loro, perché privo di storia, di dramma, di spiritualità incarnate, di tradizioni condivise e di mondi comunitari. Era un Dio garante dell’ordine metafisico nel quale ogni realtà trovava il proprio posto e il proprio nome. Quando Nietzsche portò l’annuncio della sua morte, una morte definitiva, la filosofia non smise di pensare le profondità nascoste in ogni eccesso dell’essere. Semplicemente cercò di non tradirle con riferimenti estrinseci e alienanti, implicandosi in narrazioni dell’esistenza rispettose dei processi consci e inconsci vissuti dalle singolarità, uomini e donne segnati nella loro differenza da un’infinità di differenze.
La teologia postconciliare, ormai decisamente smarcata dalla diffidenza verso il mondo e i suoi simboli, ha, da parte sua, smesso di trattare la filosofia come un’ancella, e si lascia provocare da quella radicalità della domanda teoretica che il discorso su Dio non sempre si può permettere. In questa cornice generale si colloca poi ogni presa di parola soggettiva, sbilanciata sull’uno o sull’altro versante.
Tra filosofia e teologia
Queste parole nascono sul confine tra filosofia e teologia. Senza dubbio non è più il tempo della contrapposizione. Tentare di dire che cosa, da filosofi, ci si aspetta dalla teologia morale non può essere gesto del noi e voi. Non si tratta di appiattire i percorsi e di nascondersi nelle convergenze tanto più facili quanto superficiali, ma di collocarsi nella scomoda posizione interdisciplinare, per uscire dai confronti epistemologici secchi e provare ad addentrarsi nella storia umana, che è quella dell’esperienza da sentire, raccontare, giudicare e tradurre in simboli trasformativi, secondo orizzonti differenti che tuttavia non vogliono essere autoreferenziali.
Mi sembra sia questo, tra molti altri certamente, il guadagno del confronto aperto nel 2007 dalla fenomenologa Roberta de Monticelli con il suo Sullo spirito e l’ideologia. Di fronte al rifiuto ecclesiale di celebrare i funerali di un uomo che, per amara, lucida e disperata scelta di congedarsi da una vita che la malattia aveva straziato consumando il tempo senza mai restituire nulla in cambio, De Monticelli aveva rivolto la sua profonda parola critica ai cristiani, chiedendo le ragioni del loro silenzio in una Chiesa che non era più in grado di vedere le singolarità per quello che sono, uniche, irripetibili e insostituibili nel loro percorso personale e nella loro versione del mondo, spesso drammatica.
Nella posizione di una pensatrice che allora si sentiva sulla soglia della Chiesa – lì forse per non chiudersi al mondo di fuori, un po’ come Simone Weil – la filosofa esprimeva il suo «disagio dell’intelligenza» per una religione che si esprimeva più per ideologia che per spirito di carità cristiana. L’eco di questo scritto fu larghissima e differenziata, ma ricordo la versione della filosofa e teologa Alessandra Cislaghi, che da una posizione diversa – lei «in fondo alla Chiesa» – si sentiva chiamata a prendere la parola con Parresia, titolo dello scritto con cui appunto rispondeva alla collega.
L’intento del suo discorso non era apologetico, ma mirava a far emergere la complessità del vissuto credente, certamente esposto alla mortificazione di ogni forma di dogmatismo acritico e spietato di una tradizione che a volte fa male, ma anche nutrito di sorgenti di senso e di forme di vita pratica non sempre ben riconoscibili da fuori. L’autrice ci suggerisce di imparare a sospettare l’esistenza di questo mondo implicito, per evitare di avviare polemiche con un avversario che, nella repulsione per ogni ideologia, rischia di venire a propria volta deformato ideologicamente.
Un attrito promettente
Non è dunque un duello frontale quello che si innesca, ma un attrito pieno di promesse, generato dal fatto che due diversi discorsi si toccano nel narrare lo stesso mondo, avviando una contaminazione non facile ma possibile. In questa contaminazione non c’è simmetria: la filosofia cerca nell’immanenza la verità di ciò che si manifesta e ha bisogno che l’implicito profondo in cui si radica la teologia trovi espressione simbolica, riconoscibile, giudicabile, confrontabile, assumibile e rifiutabile; dal canto suo, la teologia approfondisce l’esperienza umana come estensione raggiunta e abitata da un divino capace di incarnarsi, attraversata da uno Spirito che intercetta e corrobora tutte le risorse disponibili per una vita buona e felice, e destinata a partecipare gratuitamente all’agape della vita trinitaria.
Inaggirabile, la domanda filosofica sorge nella consapevolezza che le azioni morali sono una forma di lettura personale del mondo e racchiudono un senso indeducibile fuori dalla situazione concreta in cui avvengono. Pensare è gesto che non sopporta l’infedeltà alla storia né il misconoscimento delle modalità con cui questa si imprime nella carne di ogni singolarità, e pretende che si faccia altrettanto, anche quando c’è di mezzo Dio.
Squilibri fecondi
In questo senso, la teologia morale non scoraggia i filosofi se accetta di vivere alcuni squilibri fecondi. Ciò accade:
–quando essa si riferisce a leggi morali senza dimenticare che esse sono una forma di custodia del desiderio e che Gesù è venuto a dar loro compimento restituendole a quella sorgente vitale, singolare e differente a cui è affidato il destino di ogni soggetto;
–quando riconosce il peccato anche come colpa verso il desiderio stesso, proprio e altrui; accade quando il suo linguaggio non è neutro e asettico, ma rende conto del fatto che siamo uomini e donne che si trovano in un ordine simbolico che ci nomina gerarchicamente e che ci consente espressività spesso rigidamente predeterminate;
–quando dà spazio all’agentività (agency) delle persone, che devono poter riconoscere e sperimentare la loro responsabilità e la loro forza di intervento sulla realtà, a livello cognitivo, intenzionale, emotivo e pratico;
–quando sa giudicare i contesti che promuovono questa forza o scoraggiano le forme impersonali e paralizzanti del suo controllo;
–quando in essa responsabilità non è in contrapposizione a vulnerabilità;
–quando resta sul piano della realtà, facendo attenzione a ciò che si manifesta come eccedenza;
–quando prende sul serio la pratica e le pratiche, luoghi epifanici di un senso che non può essere ricavato dalle teorie, ma sperimentato arrischiando la propria stessa postura nel mondo;
–quando rimette al centro la corporeità in tutta la sua complessità, dove natura è processo e divenire, la biologia è già simbolica, e la materialità appare come una forma possibile dello spirito;
–quando vigila sulle varie forme di violenza linguistica, ed evita parole che umiliano, provocano, escludono;
–quando non ha paura delle parole che nascono dall’elaborazione delle donne;
–quando ricorda che la virtù non si esaurisce sul piano privato, ma ha anche una destinazione pubblica;
–quando riconosce autorità ai soggetti imprevisti, che hanno un’esperienza da spartire;
–quando soprattutto racconta la dinamica pasquale, che si esplica come passaggio da morte a vita, in un sentire anticipato in ogni storia che supera ferite, colpe e fallimenti…
Non sempre, ma la teologia morale è capace di tutto questo. La filosofia che se ne accorge e apre un dialogo è quella che sa di non bastare a se stessa e che non ha troppa fretta di farsi un’idea dell’esperienza cristiana. Con un atteggiamento fenomenologico profondo e disposto a un’etica dei sensi, essa intercetta l’implicito della teologia proprio mentre questo va nascendo e tenta di esprimersi, e riconosce frammenti della propria verità nella trama di quel discorso.
Solo in questa circolarità contaminata, per dirla con le parole di Deleuze, possiamo «diventare degni di ciò che ci accade».