Accogliere: spunti per un’ospitalità reciproca, ecclesiale e teologica
Il costante e insistente appello di papa Francesco ad accogliere migranti e rifugiati rivolto alla società e soprattutto alla Chiesa (parrocchie, comunità religiose, monasteri, santuari…) avviene in un momento in cui la paura sembra si stia affermando come il sentimento dominante nei confronti di queste persone in Europa, come dimostrato dalle più recenti ricerche e sondaggi condotte in tutto il continente, Italia compresa. Ricorrendo al linguaggio della teologa Susanna Snyder, pare che in questa particolare congiuntura storica l’ecologia della paura abbia il sopravvento sull’ecologia della fede.
Un’“ecologia” della paura?
La paura è certamente comprensibile in un periodo di trasformazione demografica, sociale, culturale, economica e religiosa come quello attuale e siamo certamente chiamati a coglierne le origini e motivazioni che, a dire il vero, non sempre sono supportate dai fatti. Quest’ultimo elemento conta fino a un certo punto perché ci accorgiamo sempre di più nelle nostre conversazioni quotidiane e dibattiti pubblici che le percezioni e le emozioni nei confronti di alcune categorie di migranti sono più forti dei fatti. Questa consapevolezza deve orientare la nostra riflessione pastorale e teologica sul tema.
Bisogna anche aggiungere che alle volte la paura diventa un “sentimento di convenienza”, una buona scusa per chiudere gli occhi di fronte alla realtà, per nascondere egoismi personali e collettivi ed evitare di affrontare con determinazione e serietà le cause e conseguenze dei cambiamenti che stanno avvenendo nelle nostre società e soprattutto ricercare e individuare le nostre complicità rispetto a situazioni delle quali noi stessi siamo responsabili, almeno parzialmente. In questo contesto anche la stessa identità cristiana viene spesso usata per alimentare l’ecologia della paura specialmente da persone che si ergono a paladini di un cristianesimo di facciata che ha poco a che fare con la radicalità esigente e mite del Vangelo. La domanda da porsi in questo caso è: ma accogliere non è parte integrale dell’identità di chi si proclama discepolo di Gesù Cristo?
Un’“ecologia” della fiducia e della fede
Il messaggio di papa Francesco ci aiuta non solo a ritrovare la centralità dell’accoglienza nella vita cristiana, ma anche a intenderla come l’inizio di un processo integrale che comprende passaggi altrettanto fondamentali come proteggere, promuovere ed integrare. Questo vuol dire che l’accoglienza o l’ospitalità non è scollegata dagli altri tre elementi, ma è parte costitutiva di un percorso che deve portare la persona a partecipare pienamente alla vita della società e della Chiesa e a dare il proprio contributo alla creazione di una comunità aperta, inclusiva e giusta. In altre parole, se non si capisce che l’ospitalità deve essere orientata all’integrazione della persona in una comunità, si rischia di continuare con una pratica dell’accoglienza che si svolge ai margini della società e quindi è destinata a creare persone marginali e ad alimentare la cultura dello scarto denunciata sia da intellettuali come Zygmunt Bauman che dallo stesso papa Francesco.
L’altro rischio è quello di limitarsi ad una “prima accoglienza”, cioè ad una accoglienza “ad orologeria”, a “breve scadenza” che pensa e spera di aver risolto la “questione migranti” e delle società che li ospitano in pochi mesi, senza aver avviato un impegnativo processo di conoscenza e comprensione reciproca che deve condurre ad una convivenza armoniosa ed arricchente, un percorso che richiede tempo, pazienza, e dedizione; un percorso spesso faticoso costellato di successi, ma anche di criticità e fallimenti. Non dimentichiamo che l’accoglienza è sempre un incontro tra sconosciuti che devono imparare a conoscersi, a comprendersi e a convivere e quindi include l’esperienza di ospitare ed essere ospitati. Questa reciprocità ci permette di non ridurre l’ospitalità alla pretesa di aiutare e risolvere problemi degli altri da una posizione di superiorità, ma la converte nell’atteggiamento di chi entra in punta di piedi nel mondo dell’altro, con l’intenzione di non condividere principalmente la propria ricchezza materiale, ma soprattutto quella umana e spirituale, di rendere la persona partecipe della propria vita con le sue gioie e dolori.
Migrazioni e cattolicità: una prospettiva ecclesiale
Da una prospettiva ecclesiale l’attuale spostamento dell’asse del cristianesimo verso il Sud globale diventa il contesto nel quale siamo chiamati a interpretare l’accoglienza. La stessa elezione del card. Jorge Mario Bergoglio, argentino e figlio di emigranti italiani, a vescovo di Roma può essere letta come il simbolo di un cristianesimo sempre meno occidentale e sempre più globale e influenzato nella storia passata e recente da importanti flussi migratori. Non bisogna andare lontano per osservare le conseguenze di questa trasformazione, che si fa ancora fatica ad accettare anche in campo teologico: il sociologo Enzo Pace ci fa osservare che la vera novità in un paese di secolare tradizione cattolica come l’Italia non è tanto la presenza significativa dell’islam, ma la realtà oramai affermata di un cristianesimo plurale che spesso rimane invisibile alla maggior parte delle persone, credenti o non.
In questo contesto l’ospitalità diventa un canale privilegiato per la cattolicità e l’ecumenismo: l’accoglienza del cristiano di cultura, rito e tradizione diversa ci porta a divenire sempre più consapevoli della qualità della chiesa che ci insegna che siamo una piccola parte di un tutto caratterizzato allo stesso tempo da una straordinaria diversità e una radicale tensione verso l’unità nella Trinità. Nell’era del cristianesimo globale l’accoglienza ci conduce a diventare cristiani mondiali, membri di «un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (EG 111).
L’ospitalità: un tempo e un luogo opportuno per conoscere Dio
L’episodio di Abramo che accoglie i tre pellegrini presso le querce di Mamre (cf. Gn 18, 1-15), il passaggio in cui Gesù chiede l’ospitalità di Zaccheo (cf. Lc 19, 1-10) e l’incontro di Gesù con la donna cananea che chiede insistentemente di essere ascoltata (cf. Mt 15, 21-28) sono tre esempi biblici in cui le esperienze di accogliere ed essere accolti si confondono e completano e in questo processo qualcosa di molto più importante avviene: la Buona Notizia irrompe inattesa e diventa realtà nell’annuncio della nascita del figlio di Abramo e Sara e nella conversione di Zaccheo e dello stesso Gesù.
L’ospitalità, quindi, non deve essere considerata solo come una virtù cristiana e politica, ma il tempo (kairos) e lo spazio dove, superata la paura e mancanza di conoscenza dell’altro, Dio si rivela inaspettatamente trasformando la vita delle persone. L’accoglienza diventa, quindi, un locus theologicus, il luogo in cui accogliendoci reciprocamente accogliamo in realtà Dio e i suoi angeli, anche senza rendercene conto (cf. Eb 13, 2).