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Moralia Dialoghi

A proposito di etica: una prospettiva protestante

Una duplice caricatura

È abbastanza comune, anche nell’ambito di dibattiti tra esperti (o presunti tali!), che il protestantesimo sia oggetto di una duplice critica: da un lato, vale l’affermazione secondo la quale - a fronte della sottolineatura della radicalità della grazia di Dio che realizza la salvezza del credente, senza la sua cooperazione - si apra la strada ad ogni sorta di immoralità. Dall’altro, i protestanti, nelle loro forme storiche, sono spesso accusati di essere stati (o, anche, di essere ancora) dei rigidi bacchettoni.

Le due affermazioni, di per sé, si annullano a vicenda e rappresentano caricature di fronte alle quali si può sostare con un sorriso. Entrambe, tuttavia, interrogano il protestantesimo rispetto al campo dell’etica, cioè a quell’ambito che riguarda l’agire dell’individuo, in questo caso del credente. Ho già scritto che ritengo che una definizione – perfettibile ma non arbitraria – dell’etica in una prospettiva protestante sia questa: l’etica è il tentativo, provvisorio ma necessario, della comunità credente, di vivere l’ubbidienza concreta al comandamento di Dio nella situazione data. Mi sembra opportuno cercare di articolare i termini di questa definizione.

 

Una risposta necessaria e provvisoria

Il primo aspetto che mi pare importante sottolineare è che l’etica, in una prospettiva protestante – o comunque, nella prospettiva che intendo cercare di delineare – si caratterizza come risposta al tempo stesso necessaria e provvisoria.

La necessità è legata all’esigenza del discepolo di Cristo di rispondere al comandamento di Dio: la nozione di responsabilità non è, in tale quadro, un concetto vago, bensì il termine che permette di comprendere teologicamente l’azione del credente. Essa rimanda al carattere relazionale della fede, che istituisce un legame tra l’individuo e Dio e che determina – non nel senso di un rapporto causa-effetto – la sua azione come risposta alla parola di Dio e al prossimo.

La provvisorietà di tale risposta è legata al fatto che l’agire responsabile – come azione che articola l’obbedienza alla parola di Cristo attraverso il servizio al prossimo – assume il rischio di attuare tale risposta nell’ambiguità e nella relatività della storia umana. In tale spazio, il riferimento al comandamento non può divenire tentativo di applicazione di un principio astratto, pena il suo fraintendimento in chiave legalistica. È noto che, nella storia del ‘900, il teologo evangelico che ha riflettuto con maggiore puntualità su tale aspetto, è Dietrich Bonhoeffer. Egli afferma che il comandamento non può essere separato da Cristo e da quella realtà contraddittoria nella quale esso è applicato nella relazione con il prossimo. È solo in tale realtà che il comandamento è pronunciato, ascoltato e può essere ubbidito.

L’agire responsabile è quindi il necessario e provvisorio tentativo di ascolto – e quindi di ubbidienza – del comandamento nella contraddittorietà concreta della realtà. «L’obbedienza è possibile solo nella responsabilità, che è il nome concreto della libertà, cioè lo spazio entro il quale l’essere umano vive il comandamento nelle tensioni che caratterizzano la realtà» (Fulvio Ferrario).

 

Autonomia e responsabilità

Per queste ragioni, l’etica protestante è chiamata ad una riflessione puntuale sul rapporto tra autonomia e responsabilità. Non ho difficoltà ad affermare che l’etica protestante, nella comprensione che cerco di esprimere, è necessariamente un’etica eteronoma, che riconosce quindi priorità al piano relazionale, tanto nella dimensione verticale (con il Dio che rivolge la sua Parola), quanto in quella orizzontale (con gli altri soggetti destinatari di tale Parola).

Un’affermazione univoca dell’autonomia del soggetto etico – in questo caso, del credente o discepolo – perde di vista la consistenza del comandamento, come parola che si rivolge ad una comunità credente. È in tale ambito, infatti, che l’ascolto del comandamento prende forma; tanto nell’Antico Testamento quanto nel Nuovo Testamento gli imperativi di Dio sono rivolti ad una comunità credente, non ad un soggetto isolato. In un testo di qualche anno fa, imponente per numero di pagine e per lucidità espositiva, lo studioso di Nuovo Testamento Richard B. Hays propone una serie di immagini focali che dovrebbero accompagnare, in maniera sintetica, una possibile articolazione di quella che è la visione morale del Nuovo Testamento. La prima immagine proposta da Hays è appunto quella della comunità. «La Chiesa è una comunità anticulturale di discepoli, e tale comunità è il destinatario primario degli imperativi di Dio».

Un protestantesimo non dimentico della propria identità ecclesiale, non può prescindere – nella mia comprensione – da tale affermazione nel tentativo di articolare le proprie posizioni etiche. Del resto, è evidente, se consideriamo alcuni aspetti del pensiero paolino, che l’apostolo delle genti non comprende mai il comandamento come diritto del singolo, che cerca la propria fedeltà a Dio, a discapito della comunità cristiana di riferimento. Nuovamente si pone la questione già rilevata in precedenza: l’ascolto del comandamento non è astratto solamente quando pretende di esprimere un principio assoluto che precede la realtà concreta; lo è anche quando si articola come risposta individualizzata che prescinde dal quadro di riferimento comunitario. È nello spazio relazionale offerto dalla comunità cristiana che i discepoli ricercano l’ubbidienza al comandamento di Dio.

 

…nelle diverse situazioni

In tale prospettiva, il comandamento non è una realtà data una volta per tutte, bensì una parola che deve essere riconosciuta e ricercata nelle differenti situazioni. Non è la Parola in quanto tale a variare, bensì la forma che essa dà all’obbedienza nelle diverse circostanze. Il caso specifico di Bonhoeffer che riflette – nel quadro della congiura contro Hitler – sul ricorso alla violenza, illustra bene questa situazione. Il teologo non afferma che la violenza in quanto tale – nel caso specifico, la scelta di tramare per l’uccisione del dittatore – sia divenuta una sorta di bene superiore giustificato dalla situazione. Egli ritiene piuttosto che l’azione responsabile comporti l’assunzione di una colpa in nome di una scelta che, alla luce del discernimento esercitato, configura l’agire come conforme al discepolato cristiano, cioè conforme alla chiamata ricevuta da Cristo. Di fatto – nel quadro della situazione specifica nella quale, attraverso l’esercizio di discernimento attuato dalla comunità cristiana, si addiviene ad una scelta – si è di fronte al tentativo di ubbidire al comandamento di Dio. La scelta mantiene un suo carattere contingente in quanto è riferita ad una situazione specifica ma, in questa sua provvisorietà, è comunque il tentativo responsabile di re-agire al comandamento di Dio.

Le risposte che il protestantesimo ha cercato e cerca di offrire a molte questioni legate, negli ultimi anni in maniera particolare, ai tema dell’etica della vita tentano di interpretare questo equilibrio; la sfida è grande e per molte domande che oggi si pongono le chiese nate dalla Riforma devono incamminarsi su sentieri non sempre facili da percorrere. Inizio e fine vita, procreazione medicalmente assistita, tecniche di potenziamento umano, cellule staminali: il tentativo di ubbidire concretamente al comandamento di Dio deve essere articolato anche in queste situazioni date.

 

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