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Moralia Blog

Uso delle fonti

Non si può immaginare contrasto più grande fra la morte di Socrate e la morte di Gesù. Come Gesù, il giorno della sua morte, Socrate è circondato dai discepoli, ma discute con loro sull’immortalità con una serenità sublime; Gesù trema, implora i suoi discepoli poche ore prima della sua morte di non lasciarlo solo.

Quanto è vera questa sottolineatura di discontinuità tra due uomini, due culture, due visioni, due tradizioni di pensiero! 

Quanto è suggestiva questa sottolineatura di differenza, forse, per scegliere da che parte stare! Quanto è sdrucciolevole questa sottolineatura di contrasto, di sicuro, per indicare una certa superiorità! 

Tanto vera, suggestiva, sdrucciolevole che potremmo pure chiederci se la verità che afferma, la carica suggestiva che imprime e la sdrucciolevolezza che presenta possano servire a cogliere più punti di convergenza che di divergenza quando si tratta di riflettere su alcuni problemi dell’etica teologica. 

Convergere convertendo lo sguardo

Prima di tutto immaginiamo di rispondere al contrasto posto dal teologo luterano Oscar Cullmann con le parole di un altro grande teologo, Joseph Ratzinger: «Quanto è essenziale si trova più nel profondo: nell’esperienza che la comunione con Dio significa vita oltre la morte. Il fatto che questa conoscenza, nata dalla sofferenza per la fede, ha un parallelo interiore nell’esperienza di Socrate [...], che muore per la giustizia, costituiva il vero legame tra il pensiero biblico e quello della filosofia platonica e creava così la possibilità dell’incontro tra le tradizioni».

Quel «profondo essenziale», che consiste nel messaggio dell’Emmanuele, è teologia e non filosofia, e nessun filosofo gioca a fare il teologo e viceversa, ognuno sa o dovrebbe conoscere il proprio mestiere; tuttavia, la possibilità dell’incontro, quindi di una (dis)continuità messa tra parentesi, è ravvisabile in un’azione per la giustizia che giustifica parallelismi profondi tra tradizioni diverse, «con-vertendo» lo sguardo del teologo moralista il quale, certo e stabile in quel «profondo essenziale della Parola rivelata» («Dio è con noi», quindi noi non siamo con la morte), può e deve saper maneggiare le fonti con quella libertà di ricerca che sa distinguere la Parola dalle parole e sa trovare nelle parole ciò che è degno di essere voluto ed amato e nella Parola il «perché ultimo» di questa dignità.

Ed eccoci a uno di quei capitoli per niente pacifici dell’etica teologica (quale dei capitoli che la costituiscono è pacifico?): le fonti. 

Il problema delle fonti

Uno sguardo continuista dovrebbe caratterizzare il lavoro del teologo moralista quando presta attenzione al filosofo moralista. Per quest’ultimo i «dialoghi platonici» sono una fonte perché costituiscono quel punto a partire dal quale un concetto consueto di giustizia si scombina per ricomporsi secondo nuove coordinate che ri-disegnano e ri-orientano una nuova visione del mondo e delle sue relazioni.

A fronte della consueta convinzione che procurare un torto a chi lo aveva inflitto era considerato un modo giusto per fugare il turbamento provocato da una prevaricazione, il maestro e personaggio di Platone introduce una serie di considerazioni e argomentazioni che mette a soqquadro l’opinione della cosiddetta maggioranza:

  1. non dovendo mai commettere ingiustizia volontariamente,
  2. perciò non dovendo rispondere con un’ingiustizia a un’ingiustizia,
  3. non è giusto ricambiare un danno subìto infierendone un altro. 

Come in una scacchiera, le pedine di Socrate sono di colore diverso dalle pedine dei suoi interlocutori e, sebbene nei «dialoghi» si registri, sovente, una pausa dal serrato confronto sul piano dei valori per deviare verso un altro piano volto a illustrare la preferibilità di una giustizia rispetto a quella della maggioranza alla luce della felicità ultima, il confronto serrato che egli ingaggia in sé non difetta di senso compiuto.

Gli interpreti filosofi moralisti parlano di funzione protrettica, alimentata da un paradigma eudemonistico-teleologico, distinta dalla funzione del calcolo razionale ovvero della considerazione di ciò che veramente sia male o bene in una situazione.

Su questo piano ciò che conta è esclusivamente la verità dei fatti e il loro valore per colui che è in situazione. 

Maneggiare con cura

Analogamente, il teologo moralista ci guadagnerebbe in termini di chiarezza concettuale e di chiarificazione terminologica tutte le volte che riuscisse nella sacra Scrittura a distinguere i testi con funzione parenetica, alimentata da uno sfondo escatologico, dai testi il cui contesto vitale fu dettato dalla considerazione di ciò che la comunità reputò essere il bene o il male in situazione.

Con questa analogia, vorremmo introdurre la convinzione che l’uso delle fonti in etica teologica non si può liquidare – in estrema sintesi – con l’assunzione della teoria del precetto divino come marchio distintivo.

Al contrario l’uso delle fonti può rendere solida – in iniziale analisi – l’assunzione di un modo di pensare ed elaborare una riflessione etico-teologica che si spinga oltre le norme specifiche di appartenenza (sono norme morali?) verso una serie di questioni circa il ragionamento morale.

I libri della sacra Scrittura, i loro autori, i personaggi da loro messi in scena, le situazioni affrontate, le storie tutte in essa presenti, molto spesso – è necessaria quella conversione di sguardo a cui accennavamo all’inizio – tradiscono ciò che è logico, cioè razionalmente difendibile, più che semplicemente precetti divini.

Dal punto di vista etico-teologico ciò significa che l’uso delle fonti pone già sul tavolo la questione di quale sia la fonte (d’ispirazione) di questo uso: porre sotto esame le ragioni di una direttiva morale oppure stabilire un precetto (di Dio)? Un passaggio, questo, che dovrebbe farci capire che dall’epistemologia di una disciplina non si scappa!

Frequentando piacevolmente qualche autore che ci ha incoraggiati in questa direzione, ci siamo convinti che – per usare un’immagine tratta dalla medicina – come un organo è di fatto la funzione che svolge, così se non si comprendono quali funzioni possiedono le fonti, queste possono rischiare o la disfasia o la logorrea.

 

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