Trump: intervento umanitario?
«La decisione dell’amministrazione Trump di assassinare il generale iraniano Soleimani in territorio iracheno ha sortito l’unico effetto di causare un’escalation della tensione e di mettere in pericolo la vita di uomini, donne e bambini innocenti che pagheranno per le ritorsioni che avverranno tra Stati Uniti e Iran» (Pax Christi USA, 7 gennaio 2020).
Sembra incredibile, ma questa analisi manca dai media che riempiono le pagine e il web. Eppure la vita umana dovrebbe essere il primo pensiero di qualsiasi politico, come optare per facilitare l’uccisione di migliaia di persone innocenti dovrebbe indignare le cancellerie e riempire le piazze.
Prima delle immaginate proiezioni sulle ipotizzabili scelte degli altri attori, ogni capo di stato farebbe bene a sottoscrivere la semplice osservazione di Bernie Sanders:
«Sono andato a troppi funerali. Ho parlato con troppe madri che hanno perso i loro figli in guerra e con soldati tornati a casa senza gambe e senza braccia. E so che raramente sono i figli dei miliardari ad affrontare le conseguenze della politica estera spericolata. Sono i figli delle famiglie che lavorano» (Bernie Sanders, 5 gennaio).
Insomma, la pericolosa escalation innescata dalla tragica mossa del presidente Trump minaccia prima di tutto la vita.
Una disastrosa scelta autonoma
Al contrario, come viene amplificato dai più, dovremmo invece ringraziarlo perché avrebbe «eliminato» Soleimani e altre cinque persone, non per provocare una guerra ma per prevenirla. Il vocabolario della guerra, da sempre, sa stravolgere la realtà drammatica col fine di difendere le decisioni anche insostenibili dei potenti.
Le nuove definizioni che eliminano massacri e stragi ce le hanno inculcate da decenni, e noi abbiamo accettato perfino che alla parola ripugnante «guerra» siano riusciti ad appiccicare l’aggettivo confortante di «umanitaria». Non serve sprecare una spiegazione sul perché, chiamando così la guerra, uccidere acquista un fine addirittura umanitario, basta la parola.
Anche in questa occasione si lavora prima di tutto a come far accettare all’opinione pubblica la disastrosa scelta autonoma di un uomo che rischia di trascinare il mondo intero in una gravissima crisi.
Non credo di aver letto da nessuna parte che Donald Trump sia un «terrorista» o un «assassino», ma è noto a tutti ciò che Agnes Callamard, dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha avuto il coraggio di dichiarare:
«Dal punto di vista del diritto internazionale l’assassinio mirato del generale iraniano Soleimani all’interno dell’aeroporto internazionale di uno stato terzo, senza una situazione di straordinaria emergenza in atto né una guerra dichiarata fra gli Stati Uniti e l’Iran, per le modalità e il contesto in cui è avvenuto, è da considerarsi un atto criminale e terrorista, oltre che fra i gesti più sconsiderati possibili sul piano geopolitico» (P. Hanski, Internazionale, 8 gennaio).
Le concrete richieste di Pax Christi
Non resta che dar voce alle rare dichiarazioni fuori dal coro, come quella di Pax Christi Italia:
«Sembra prevalere la logica del più forte, del più armato. Ma quale altra infernale situazione potrebbe generarsi dall’incombente guerra all’Iran? La guerra in Libia, ad esempio, non ha proprio insegnato nulla? Si vuole dunque accendere una nuova fornace dove bruciare umanità e speranze di pace e coesistenza pacifica?».
A rafforzare la mia particolare lettura dei fatti ricordo di aver recentemente incontrato il direttore della Caritas Iraq, che non mi parlava di strategie di guerra né di leader che tutto riducono alla logica devastante dell’armarsi facendo a pezzi l’indispensabile organismo delle Nazioni Unite. Mi raccontava invece con speranza di una società irachena pronta a ricostruire e tutt’altro che rassegnata, come hanno dimostrato le manifestazioni di piazza di settembre e ottobre.
«Questi paesi – diceva –, che per voi sono solo un campo di battaglia, avrebbero la possibilità di risorgere nonostante la povertà, gli sfollati interni e la corruzione. Migliaia di giovani iracheni hanno riempito le strade di Baghdad, Najaf, Bassora, Nassirya, Kirkuk e Mosul. Nomi che a voi in Occidente ricordano solo politiche di guerra dal 2003, con invasioni di eserciti chiamati “coalizione dei volonterosi”, “guerre preventive”, e il Califfato le cui origini conosciamo ma censuriamo».
Così in questi giorni di prime cronache di guerra, con i primi missili di Teheran sulle basi in Iraq, non seguo tanto l’impacciato muoversi della diplomazia italiana. Preferisco diffondere le concrete richieste di Pax Christi Italia: esigere dal Parlamento scelte politiche concrete e immediate di pace, per non essere coinvolti nella guerra ed esserne complici; non dare la disponibilità delle basi Usa in Italia; bloccare l’acquisto degli F35; ritirare i nostri soldati dall’Iraq e dall’Afghanistan; dare più potere all’ONU e non alla NATO; consultarsi con l’ONU sulla sicurezza del contingente italiano e internazionale in Libano; aderire immediatamente al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari.
Preferisco invitare la mia comunità cristiana a una preghiera che, insieme alla denuncia della follia della guerra, possa avere lo sguardo di papa Francesco, che come mi raccontava il direttore di Caritas, il 10 giugno aveva preso la decisione di andare lui stesso in Iraq dichiarando:
«Un pensiero insistente mi accompagna pensando al Medio Oriente e in particolare all’Iraq, dove ho la volontà di andare il prossimo anno, perché possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali» (10 giugno 2019).
Nandino Capovilla, già coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, è parroco a Marghera. Ha scritto, tra l’altro, «Non sapevo che il mare fosse salato», Paoline, Milano 2017.