Teologia e filosofia morale
Il rapporto tra teologia e filosofia morale è la versione epistemologica del rapporto tra fede cristiana e ragione umana, ed entrambi riguardano l’agire personale.
Questo rapporto, possibile e auspicabile, definisce quello disciplinare nei suoi fondamentali e permette la trans-formazione teologica della filosofia, anche cristiana, la quale permanendo nell’identità propria è oltremodo sfidata dall’indagine scientifica del mistero del Signore Gesù, considerato non solo materialmente, ma formalmente.
L’accoglienza del mistero cristiano ha un ineludibile passaggio razionale, il cui approfondimento scientifico implica l’attivazione della filosofia, certo criticamente assodata: un’argomentazione filosofica scadente risulta teologicamente incompatibile, ma anche un’argomentazione consistente, per esserlo appieno, deve lasciarsi plasmare continuamente dalla rivelazione cristiana.
In un contesto di accentuato pluralismo
Qual è la situazione del rapporto tra teologia e filosofia morale oggi? Abbandonato il monolitismo filosofico scolastico dell’epoca preconciliare, siamo di fronte a un accentuato pluralismo filosofico in teologia (si pensi al personalismo, alla fenomenologia, al trascendentalismo, all’ermeneutica e altro ancora).
Ed è un pluralismo anche – se non soprattutto – morale, con importanti ricadute sul relativo pensare e pensiero. Questo richiede accortezza sia nel relativo dibattito di settore, evitando per esempio l’approssimazione, l’ibridazione e l’incoerenza concettuale, sia nella continua sequela della sua compatibilità e fecondità teologica, custodendo l’ulteriorità del divino.
Il compito che si prospetta non è di poco momento, soprattutto se lo si colloca nel contesto del pluralismo interculturale, inter-religioso e inter-confessionale emergente in modo acuto e pervasivo proprio in ambito morale, che conosce la profilazione pre- e autoferenziale o al massimo pattizia, tipica delle società procedurali contemporanee.
La riscoperta della ragione pratica
La recente «riscoperta» dell’accezione pratica della ratio connota attualmente sia la teologia sia la filosofia morale, e la sua ritrovata consistenza le accomuna nell’individuare e nell’evitare la sua risoluzione, un tempo corrente, in altro da sé, nell’omologazione a semplice deduzione dalla ragione speculativa, nell’identificazione sommaria con quella giuridica o nella consegna all’empiria psicologica o sociologica.
L’opportuna distinzione della descrizione empirica sull’interpretazione, sia speculativa che pratica, permette una trans-disciplinarità ordinata, atta a valorizzare il proprium disciplinare delle singole scienze, senza permettere il riduzionismo epistemologico.
La declinazione pratica, e non speculativa o giuridica o empirica, della ragione pratica incontra poi discussioni specifiche, quali quella vertente sul criterio identificativo dell’agire e della sua qualificazione etica: deve essere il risultato consequenziale, come vorrebbe il consequenzialismo, o il significato intenzionale, come indica il deontologismo?
Il suggerimento opportuno di una loro composizione implica certamente l’evitare esclusivismi, ma non richiede forse anche la delineazione della priorità del simbolico sul produttivo, della causa finale su quella efficiente?
L’odierna discussione teologico-morale e filosofico-morale verte sui precipui paradigmi: teleologico (l’etica come fine da raggiungere) o deontologico (l’etica come imperativi da osservare); oppure normativo (un’etica del singolo atto) o virtuoso (un’etica dello stile personale).