Sugli attentati in Indonesia. Legami di sangue
Gli attentati che domenica scorsa hanno devastato tre chiese cristiane nella città indonesiana di Surabaya, causando almeno 13 morti, chiamano in primo luogo alla solidarietà con le vittime e al cordoglio.
Tale movimento si prolunga nella condanna: se ogni violenza è sconvolgente, se ogni attentato giustificato da motivi religiosi va stigmatizzato, occorre farlo in modo particolarmente duro nei confronti dell’ISIS. Ormai sconfitto in Medio Oriente sul piano militare, esso ha lanciato ai suoi membri un appello per una campagna di attentati globale, rivolta a tutto ciò che abbia a che fare coi suoi oppositori; parecchi anche in Occidente si sono rifatti a esso per gravi episodi di violenza.
In tale quadro globale, però, gli attentati di Surabaya inseriscono alcuni elementi specifici, che domandano una riflessione ulteriore
Uniti nel martirio
Il primo è la diversa caratterizzazione delle comunità colpite: se nel primo attentato era una chiesa cattolica, il secondo era rivolto a una comunità riformata e il terzo s’indirizzava a una pentecostale. Per la violenza terroristica il bersaglio è evidentemente qui la fede cristiana – significativa minoranza in Indonesia –, a prescindere dalle distinzioni confessionali.
Tocchiamo con mano quell’ecumenismo del sangue di cui parlava papa Francesco, evidenziando quanto profonda si riveli qui l’unità tra le diverse famiglie cristiane, al di là delle differenze nella formulazione della fede. È una realtà che va custodita e coltivata in percorsi di comunione: anche questo è un modo di testimoniare quel seme di pace che le religioni possono maturare, quando non si lasciano sopraffare dall’ideologia della contrapposizione e dalle pulsioni di morte.
Uniti nella violenza
Ma il secondo elemento –il più sconvolgente – è che il gruppo degli esecutori materiali dei tre attentati è una famiglia.
Il primo attentato ha avuto come protagonisti due fratelli di 16 e 18 anni, che si sono lanciati con la moto carica di esplosivi sul sagrato di una chiesa; il secondo ha visto esplodere pochi minuti dopo la loro madre, assieme alle due figliolette di 9 e 12 anni, mentre l’ultimo è stato opera del padre, che ha usato l’auto familiare.
L’unità della famiglia si declina qui come condivisione di un’ideologia di morte; la formazione e la cura impartite dai genitori ai figli culmina nell’uccidere e nel morire assieme.
Difficile pensare a una distorsione più profonda del senso della famiglia, che ha nella vita, nella sua trasmissione e nella sua cura il senso primario del proprio esistere. Fare dei legami familiari uno strumento tutto finalizzato alla morte – propria e altrui – significa contraddirne l’essere stesso.
Che c’è di musulmano?
L’ultima riflessione provocata da tali eventi è che qui di musulmano non c’è davvero niente. Se il sedicente Stato islamico pretende di richiamarsi all’islam, le sue pratiche non hanno niente a che fare col nome di Allah, misericordioso e compassionevole, amante della vita; non casuali le numerose condanne che allo stesso ISIS sono state indirizzate da numerose e autorevoli istituzioni musulmane. È una mera strumentalizzazione del dato religioso, per sostenere una campagna fatta soltanto di odio.
Occorrono risposte ferme, certo non ingenue, ma neppure meramente reattive di fronte ai meccanismi di morte che la guidano. Attivarne di eguali e simmetrici, infatti, significa cedere alla stessa logica: solo nella testimonianza di una prospettiva altra, radicalmente altra, è invece possibile metterla definitivamente fuori gioco.