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Moralia Blog

Studiare il cristianesimo da musulmani: perché?

Hamdam al-Zeqri: questo il nome del giovane yemenita che martedì 15 ottobre 2019 consegue la laurea triennale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Firenze con una tesi elaborata a partire dalla sua opera come ministro di culto per i musulmani del carcere di Sollicciano. Un musulmano che si laurea in un’istituzione cattolica: un fatto certamente singolare, che ha suscitato proteste e preoccupazioni in alcuni media, quasi si aprisse la possibilità che nelle scuole compaia un insegnante di religione cristiana personalmente musulmano. Si delinea forse qui la più subdola forma di islamizzazione?

Niente di più lontano, in realtà, dalle intenzioni di una persona per la quale lo studio della religione cristiana si radica in primo luogo nella volontà di conoscere e comprendere una realtà di cui non è parte (e in nome della quale non potrebbe certo parlare), ma con la quale intrattiene stretti rapporti.

La sua scelta e il suo percorso di studi si radicano, infatti, anche in una stretta collaborazione con realtà ed esperienze del cattolicesimo fiorentino. Né questo suscita stupore: da decenni ormai Firenze – profondamente memore in questo della lezione di Giorgio La Pira – coltiva iniziative di dialogo tra le religioni mediterranee, in cui islam e cristianesimo si trovano tra altro confrontati anche con quella realtà terza (o prima, da un punto di vista cronologico) che è l’ebraismo.

Per il dialogo

Notizie del genere, dunque, non possono che essere viste con grande interesse da chi ritiene che il dialogo tra le religioni sia una via fondamentale per la costruzione di pace. Il dialogo, certo; una realtà esigente che presuppone una vera e propria etica della comunicazione e del riconoscimento per chi vi partecipa.

Il dialogo esige piena coscienza della diversità dei partner, ma al contempo reciproco interesse per i rispettivi orizzonti. Il dialogo chiede capacità di studio e di comprensione delle differenze e al contempo empatia nei confronti dell’altro e dei suoi orizzonti di senso, anche quelli che non si possono condividere.

Il dialogo non chiede a nessuno di deporre la propria identità per soggezione nei confronti dell’altro, ma a ognuno chiede rispetto e attenzione per quella altrui. Il dialogo è, dunque, percorso di scoperta, che mentre rispetta le identità, non per questo le lascia inalterate, ma invita piuttosto ad approfondirle.

Quel grande pensatore che è stato Paul Ricoeur ha del resto sottolineato che anche l’esperienza della traduzione – che pure chiede la chiara coscienza della diversità delle lingue tra le quali ci si muove – è al contempo una costruzione di ponti, è esperienza di un senso che si presenta sempre nuovo.

Per la fratellanza

L’esperienza di Hamdam al-Zeqri è limitata e poco sappiamo di quale sarà il suo personale futuro. Questo non ci impedisce di cogliere in essa un positivo segno per una dinamica di fratellanza, come quella auspicata dal Documento per la pace mondiale e la convivenza comune, siglato il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, un testo che genera esso stesso percorsi di riconoscimento e incontro.

Costruire dialogo e comprensione tra le fedi in percorsi di ricerca è insomma una via feconda, le cui potenzialità potranno manifestarsi solo nel tempo. E non si tratta di un dato limitato al solo mondo delle religioni; impossibile sottovalutare l’importante valenza civile di cammini che possono fare la differenza in ordine alla realizzazione di positive dinamiche di integrazione in città sempre più plurali.

 

Simone Morandini è coordinatore del progetto «Etica, teologia, filosofia» della Fondazione Lanza e insegna all’Istituto di studi ecumenici San Bernardino di Venezia; è coordinatore del blog Moralia.

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