Sri Lanka. Terrorismo, e quel male oscuro…
Anche la Pasqua del 2019 ha pagato un alto tributo di sangue al terrorismo: questa volta in Sri Lanka, almeno 359 le vittime quasi tutte cristiane; istruiti e ricchi gli attentatori del jihadista National Thowheed Jamath.
Cordoglio, deplorazione, solidarietà sono stati espressi da capi di stato, leader religiosi e comuni cittadini.
Affiora però anche un male oscuro sui social, nei media e all’interno delle nostre comunità, la cui natura è tale da porci in una sorta di contiguità con il terrorismo, sciacallando i corpi già martoriati di quei nostri fratelli uccisi. Allo sforzo propriamente umano di dare un nome alle cose – anche a quelle più scabrose – per riannodare qualche filo in un’esperienza così intricata come quella del male, subentra il tentativo di piegare quest’ultima a più facili etichette, con una designazione generalizzante ed espiatoria di vittime e colpevoli, così facilmente curvabile verso altre strategie violente.
Terrorismo «islamico»?
Lo vogliamo chiamare «terrorismo islamico», ma islamico è il terrorista, di un islam malato, numericamente poco significativo ancorché dinamico, sofferente di una degenerazione terribile per sé e ovviamente per gli altri.
Non abbiamo insistito altrettanto per definire quello di Brenton Tarrant – l’attentatore di Christchurch in Nuova Zelanda – «terrorismo bianco», perché Tarrant è sì bianco, ma fascista e suprematista come molti bianchi non sono.
Né abbiamo insistito altrettanto per definire quello di Anders Breivik – lo stragista dell’isola di Utoya – «terrorismo cristiano», non avvertendolo come rappresentativo dei cristiani pur dichiarandosi egli votato alla salvezza del cristianesimo stesso. Un cristianesimo malato, il suo, come quello di Eric Rudolph, l’attentatore delle Olimpiadi di Atlanta.
Cristiani dimenticati?
Le vogliamo chiamare cristiane, le vittime. È giusto, è il nome delle cose almeno in questo caso. Ma non mettiamo la stessa enfasi nell’esigere che si dica musulmana la gran parte delle vittime del terrorismo globale.
Nella nostra distorsione percettiva avanziamo l’idea che si taccia volutamente dei cristiani, ma la realtà è un’altra: si tace delle vittime lontane – musulmane o cristiane che siano – geograficamente, ma soprattutto economicamente e socialmente.
Abbiamo pianto, certo, per le vittime musulmane della neozelandese, così occidentale, Christchurch; ma non abbiamo pianto altrettanto per chi è morto a Parigi, Nizza, Londra, Madrid, New York? E quanto, invece, abbiamo pianto per i 126 afghani vittime di attentato a gennaio di quest’anno? Per i 141 nigeriani a febbraio? Per i 160 malesi a marzo?
Silenzi di papa Francesco?
Alcuni, all’interno della Chiesa o tra i laici devoti antibergogliani, attaccano il papa per i suoi presunti silenzi sui martiri cristiani contemporanei. La questione è anzitutto evangelica: l’appassionata sobrietà con cui Francesco ricorda (puntualmente, e ripetutamente) le vittime cristiane, intende rifuggire il rischio di rivendicare per sé uno status di vittima prioritario, quella sottile strategia che attraverso la vittimizzazione del proprio gruppo di appartenenza ricerca una posizione di attenzione privilegiata, strumentale al proprio potere.
Tra i latori di quest’accusa, quanto è rarefatto il lessico dell’empatia per le reali sofferenze altrui, e quanti spasmi di rivendicazioni di potere sussultano tra le righe… Evangelico è solidarizzare con tutte le persone colpite, cristiane e non – e non perché cristiane – in quanto offese dal gesto terrorista; evangelico è stornare dalle nostre pratiche quei sotterfugi psico-sociali che fanno leva su colpevolizzazioni e vittimizzazioni di gruppo, sempre foriere di nuove ingiustizie.
L’accusa poi rivela l’ignoranza, o peggio la mala fede, di chi misconosce i più di settanta interventi in contesto pubblico di papa Francesco sui cristiani perseguitati nel mondo.
Se la sofferenza può diventare, quanto meno, una scuola di umanità, la sua strumentalizzazione apre invece voragini di bieca disumanità: alimentare lo scontro di civiltà e religioni, consolidando etichette generalizzanti, rende complici o peggio mandanti del terrore.
Pier Paolo Simonini* insegna Teologia morale presso l’Istituto superiore di scienze religiose, ed Etica ecologica presso il biennio di specializzazione della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – Sezione parallela di Torino.