Solidarietà ad alta … quota (100)
«Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato» scriveva Albert Einstein nel suo studio di Princeton. Con questo aforisma in mente, si può provare a leggere e a valutare anche le discussioni sugli schemi pensionistici di questi ultimi tempi – almeno in Italia – per poter interpretare i numeri e … al di là dei numeri.
Quando si parla di pensioni, infatti, «ciò che può essere contato» e «ciò che conta» devono, per così dire, muoversi all’unisono, perché legati l’uno all’altro ed entrambi essenziali per costruire un welfare che sia credibile e sostenibile. Oltre le strutture degli schemi pensionistici, infatti, la responsabilità sociale ci impone di guardare dritto ai fondi disponibili, e in modo onesto e veritiero, perché in ogni economia le entrate devono coprire le uscite, oggi e domani.
Di generazione in generazione
Il problema è complesso e di non facile, né univoca soluzione. Qui va detto, però, che l’introduzione di un sistema di quote, che affianchi i canali di pensionamento tradizionali dei sistemi di welfare, ovvero la pensione anticipata e la pensione di vecchiaia, costituisce, al di là degli orientamenti politici (e partitici) il tentativo – pur sperimentale e a tempo determinato – di rispondere ai profondi mutamenti demografici, epidemiologici e culturali che caratterizzano la società italiana, e non solo.
Il meccanismo «quota 100», infatti, consentendo di sommare l'età anagrafica del lavoratore (62) alla sua anzianità contributiva (38), per permettergli di raggiungere un valore che faciliti la sua uscita «anticipata» dal mercato del lavoro, può rivelarsi anche un’espressione concreta di quella solidarietà intergenerazionale («ciò che conta») sempre più auspicata e necessaria nelle società moderne. I tassi di invecchiamento in progressiva crescita, l’aumento dell’aspettativa di vita, ma anche, e soprattutto, dell’aspettativa di vita in buona salute, se da una parte sono segni dello sviluppo economico di un paese, dall’altra esigono la ricerca di strumenti che garantiscano la redistribuzione del lavoro e la creazione di opportunità per i giovani, aprendo sbocchi professionali concreti al termine dei percorsi educativi.
Ma la copertura finanziaria deve essere assicurata («ciò che può essere contato»), per garantire pure l’equità intergenerazionale e non pesare poi sulle generazioni future, creando pericolosi vuoti di giustizia sociale.
Flessibilità e felicità
Sistema di quote sì, dunque, ma accompagnato da gradualità e parzialità nell’uscita dal mercato del lavoro, come pure da sistemi di copertura pubblici, integrati probabilmente dalla fiscalità generale e da forme di copertura economica privata.
Molto altro si potrebbe dire – sempre in termini di equità – sulla necessità di «impiegare» la forza lavoro in uscita, ancora in buona salute, in attività che abbiano un valore sociale.
In questo contesto, il lavoro di cura inteso in senso ampio (sostegno alla famiglia, volontariato, impegno nel terzo settore) offre, di fatto, molteplici opportunità per generare «ricchezza» che non sia meramente reddituale. Inoltre, c’è anche chi rileva – come gli economisti della felicità – che meccanismi come il sistema di quote appena descritto, rendendo flessibile l’età pensionabile e, quindi, la scelta della durata della vita lavorativa, consentono di «riposizionare» il valore del lavoro all’interno della società, aumentando così la soddisfazione dei cittadini nei confronti della propria vita.
Anche perché gli stessi ricercatori di cui sopra ci dicono che, fra le «strategie» utili per la felicità personale, è opportuno mantenere un legame con il proprio contesto sociale e coltivare le relazioni personali. È ragionevole immaginare che il ritiro «flessibile» dal mercato del lavoro potrebbe garantire a molti, in età matura, la libertà di dedicare più tempo proprio a queste «strategie».