Se l’obbedienza alla legge non è più una virtù
Le decisioni di alcuni sindaci, in particolare del sindaco di Palermo e di quello di Napoli, di non applicare il nuovo Decreto sicurezza per motivi di «coscienza» impongono una riflessione etica sul significato della disobbedienza civile.
In gioco vi sono i valori della certezza del diritto, da un lato, e della giustizia, dall’altro. Interessi, entrambi, che un sistema democratico non può non avere a fondamento.
Ma in ogni ordinamento giuridico e politico vi è un’ineliminabile tensione tra il foro interno (la coscienza) e il foro esterno (il comportamento prescritto dalla norma).
Si ricorderà l’episodio di Antigone, che dà una degna sepoltura al fratello Polinice, nonostante l’editto di Creonte lo vietasse. Un «mortale» infatti, dirà Antigone, non può «trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dei», che «non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero».
Questa posizione è generalmente definita di «diritto naturale» e matura nella riflessione teologica cristiana con Tommaso D’Aquino, che influenza notevolmente il pensiero giuridico moderno.
Tra diritto positivo e diritto naturale
Mentre Guglielmo d’Occam ritiene che la volontà divina è sempre giusta (a tal punto che se Dio prescrivesse un omicidio questo non sarebbe più un reato), per Tommaso la stessa volontà divina si iscrive in un ordine razionale di giustizia (Dio non può mai dire: «uccidi!»).
La tesi di Occam si traduce, in filosofia politica, nello Stato Leviatano di Hobbes, all’interno del quale le leggi sono, niente più e niente meno, comandi del soggetto che detiene il potere legibus solutus, sciolto da quelle stesse leggi, sovrano. Non c’è spazio per la deliberazione morale, c’è spazio solo per l’obbedienza e la violenza.
È questa idea sul diritto, identificata con il nome di «giuspositivismo», che farà dire a Lutero: «Giuristi, cattivi cristiani!».
Al contrario nelle teorie «giusnaturalistiche», a cominciare da Locke, la legge positiva non può che interpretare il diritto naturale come espressione di giustizia, che può trovare la sua fonte in Dio (Tommaso) o nella ragione dell’uomo (Godwin).
Inoltre nel dibattito contemporaneo sul giusnaturalismo questi valori universali possono avere una consistenza più o meno «ontologica», come per Finnis, o essere il risultato di un procedimento interpretativo o argomentativo razionale, come per Dworkin o Alexy.
La legalità non coincide con la giustizia
È senso comune affermare che la giustizia si realizza con il rispetto della legge. A tanti quando si parla di giustizia viene in mente l’istantanea del giudice che batte il martello: il culmine – pensano in molti – della giustizia, in cui viene accertato o meno il rispetto della legge.
Ma basta davvero poco, in realtà, per fare esperienza di come davanti al banco del Tribunale siamo un po’ tutti Miss Flite, l’anziana donna nata dalla brillante penna di Dickens nel romanzo Bleak House che, con la borsa piena zeppa di documenti, si reca vanamente ogni giorno alla Corte per attendere la «sua» giustizia.
Se nel giusnaturalismo la giustizia è, quindi, qualcosa in più della legalità, che la ispira e la orienta, nel giuspositivismo invece la giustizia coincide con la legalità.
Ma questo paradigma entra profondamente in crisi dopo la Seconda guerra mondiale. A Norimberga, infatti, i gerarchi nazisti sono condannati proprio per aver rispettato la legge, quella del Terzo Reich, e aver violato, in tal modo, quei principi universali di dignità umana, di giustizia, di solidarietà.
Il diritto di resistenza
Può un soggetto disobbedire a un comando di un superiore politico? Sì, può. Perché chi riceve un comando non lo subisce, ma rimane sempre libero di aderire o meno a quel comando, anche a prezzo della morte.
È l’eroica testimonianza del martirio a indicare l’esempio di quanti preferiscono rinunciare alla vita piuttosto che rinnegare la fedeltà ai propri ideali che quella stessa vita ispirano. La morte è, comunque, il caso limite ed estremo.
Insomma, la giustizia non coincide con la legalità, anche perché ci possono essere leggi non giuste. Secondo Tommaso d’Aquino la legge ingiusta non è (pienamente) legge. Più recentemente, per Neumann quella legge che non ha un contenuto di razionalità non è legge «in senso proprio»; per Radbruch la legge «estremamente ingiusta», cioè che vìola in maniera radicale i diritti fondamentali, non è legge.
In questa situazione non solo è moralmente legittimo non obbedire alla legge ingiusta, ma è moralmente doveroso. Si parla, in questo caso, di un diritto di resistenza che, come tale, non può trovare codificazione in un ordinamento. Perché altrimenti la scelta di non obbedire al comando sarebbe una delle tante opzioni previste da quel comando stesso; non vi sarebbe alcun tipo di conflitto.
Sebbene quindi si tratti di una questione giuridica, non può essere il diritto a dire quando la legge non deve essere rispettata. Sostiene Neumann: «Non ci può essere un postulato universalmente valido che ci dica quando la coscienza dell’uomo può legittimamente esimerlo dalla obbedienza alle leggi dello stato. Ogni uomo deve affrontare individualmente il problema».
Una corte come quella Costituzionale potrà, di una legge, dire se questa sia o meno conferma a Costituzione, e porre così la Costituzione a parametro di giustizia; ma neanche questa decisione solleverà l’individuo dal valutare eticamente la posizione della sua coscienza nei confronti di una disposizione normativa. Per questo motivo, don Lorenzo Milani insegnava ai suoi ragazzi della Scuola di Barbiana che l’«obbedienza non più una virtù», educandoli al discernimento.
Forse un giorno il tribunale della Storia giudicherà, in maniera positiva o negativa, una scelta etica assunta davanti a una legge. Ma neanche questo interessa a una coscienza che resiste…