Se i cittadini non partecipano alla vita democratica
Spesso si dice che la teologia morale deve avere un carattere contestuale e sapienziale. Ebbene, uno dei fatti pubblici più sfidanti per la riflessione e il ministero ecclesiale è il carattere privatistico e individualistico espresso dalla maggioranza delle persone nelle relazioni sociali più diffuse.
Questo modus vivendi ha mille sfaccettature e peculiarità, ma si presenta con chiarezza in una delle questioni più discusse nell’attuale scenario sociopolitico italiano: la scarsa partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
Nel nostro paese, alle elezioni europee di giugno scorso ha partecipato appena il 49,7% degli aventi diritto, esprimendo così la più bassa affluenza alle urne mai registrata per questa tipologia di appuntamento elettorale. Durante la Settimana sociale dei cattolici italiani (Trieste, 3 - 7 luglio) è stato proposto il paradigma della partecipazione come motivo ispiratore di una rinnovata vitalità democratica.
A questo proposito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sottolineato tuttavia che «partecipare» non equivale a «parteggiare», e che la democrazia non si esprime soltanto attraverso il voto (la sindrome del click-day), ma è l’espressione della vitalità delle persone e delle loro relazioni civili, sociali ed economiche, un buon frutto di umanità e libertà, in grado di generare una convinzione riflessa e condivisa su ciò che nutre il senso di appartenenza a una comunità.
La Chiesa ha a cuore la società
Su questo tema l’intero corpus magisteriale tradizionalmente indicato come insegnamento sociale della Chiesa è singolarmente dedicato all’evangelizzazione in re sociali: «Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 183).
A cui fa eco il magistero precedente: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28).
Tra gli altri elementi, l’evidente tonalità etica espressa nelle citazioni indica chiaramente l’appartenenza dell’insegnamento sociale alla teologia morale, affermata in un altro documento: «La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo marxista (…). Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale» (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 41).
Una riflessione che non può essere astratta ma contestuale
Si può osservare tuttavia come questo insieme di insegnamenti, segmento proprio della teologia morale, abbia un’intelaiatura di fondo che esprime per lo più un’antropologia essenzialista, legata al diritto naturale e a una teologia convenzionale che non riconosce il debito dei singoli nei confronti delle forme pratiche del vivere e quindi della storia, in stretto rapporto con le esperienze primarie che «affettano» la coscienza.
L’augurabile (e necessario) carattere contestuale e transdisciplinare della riflessione teologica in re sociali, presente in modo esplicito nel magistero di papa Francesco, è sintetizzato al meglio dall’espressione contenuta in Evangelii gaudium, n. 115: «La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio s’incarna nella cultura di chi lo riceve».
Qui si può trovare l’indicazione di un approccio fenomenologico ed ermeneutico, che consente di apprezzare la centralità della modalità antropologica e drammatica di accesso al bene proprio del dinamismo culturale umano e la sua indispensabile funzione di mediazione simbolica, capace di attivare buone consapevolezze pratiche concrete, in grado di rigenerare i codici sociali relativamente a ciò che genera un senso di socialità condivisa.
Luca Novara è docente di Filosofia e Teologia morale sociale presso l’ISSR «S. Metodio» di Siracusa e presso lo Studio teologico «S. Paolo» di Catania – II ciclo.