Riscoprire la fraternità. Per la Chiesa, per tutti
La Chiesa italiana nel novembre 2015 ha celebrato a Firenze il V Convegno ecclesiale nazionale, che aveva per tema: «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo». Una delle intuizioni-chiave, rilanciate dall’assemblea, è che quello in Gesù Cristo è anzitutto un «umanesimo dei volti», che attesta l’unità nella diversità, la comunione nella libertà, il riconoscimento nella reciprocità. In effetti la metafora del volto tiene insieme la singolarità e la relazionalità, che caratterizzano la condizione dell’uomo.
Siamo il nostro volto
Da un lato si potrebbe dire che l’essere umano «è volto»: infatti proprio nel volto trova espressione l’identità originale di ciascuno. La diversità scritta sui nostri volti non è altro che il segno visibile di una diversità ancora più profonda, quella inscritta invisibilmente nei nostri cuori.
Dall’altro lato il volto suggerisce che l’identità personale non è qualcosa di individualistico o di privatistico; al contrario, essa si gioca per intero nella relazione con altri. Non è un caso che il termine «volto» suoni esattamente allo stesso modo del participio passato del verbo «volgere». Dunque, dire che l’essere umano «è volto», significa simultaneamente affermare che è sempre «teso a» qualcuno, è sempre diretto verso un altro, che gli sta di fronte.
Di conseguenza il faccia a faccia, o meglio il volto a volto – quello spazio di fraternità in cui ognuno viene riconosciuto in quanto se stesso soltanto tramite l’altro e con l’altro – rappresenta per tutti l’esperienza umana fondamentale.
Un volto fraterno per la città degli uomini
Nella convivenza sociale tale spazio del «volto a volto» si amplia a dismisura, letteralmente sino al rischio di smarrire la misura appropriata di una relazionalità, che consenta in concreto una dinamica di riconoscimento vicendevole.
Non per nulla, tra le patologie della way of life cittadina spiccano l’anonimato, l’indifferenza, l’incomunicabilità, il risentimento, l’invisibilità, la ghettizzazione, lo scarto. Il marchio inumano di molte periferie degradate oppure l’impronta elitaria di molti quartieri esclusivi iscrivono nella materialità del costruire quelle disfunzioni relazionali, che infettano nel profondo la simbolicità dell’abitare.
In tale prospettiva, il dono più fecondo che il cristianesimo offre a ogni cultura e società è proprio la possibilità di un umanesimo dei volti, che si fa strada e si alimenta ovunque vengano attuati gesti di dedizione, di cura, di accoglienza, di tenerezza, di misericordia, di riconciliazione.
Sono i «segni del Regno», i quali si raccolgono in quella fraternità originaria, che funge da ponte invisibile tra la signoria di Dio e la convivenza degli uomini. Tale fraternità precede, accompagna e oltrepassa ogni strategia politica, ogni comunicazione digitale, ogni transizione economica, ogni differenza sociale, poiché non è programmata o prodotta: è «una cosa felice che accade» (R.M. Rilke).
Rabdomanti dello Spirito
Soltanto una ricerca umile, aperta, fiduciosa, una ricerca povera di pretesa ma ricca di attesa, permette di individuarne l’accadere.
La stessa comunità ecclesiale non è capace di provocare il darsi di questa fraternità: piuttosto, come una «rabdomante dello Spirito», è incaricata di seguirne con ostinazione le tracce ben oltre i suoi confini, ovunque si lascino intravedere, ed è chiamata a benedirne con letizia i gesti, sempre gratuiti e sorprendenti, da chiunque siano compiuti.
In tale riconoscimento nella reciprocità si radica quella «mistica del noi», di cui parla papa Francesco (Evangelii gaudium, n. 264), che permette all’alleanza tra gli umani di rigenerarsi sempre di nuovo: volta per volta, e volto per volto.