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Riconoscersi, prima di tutto. Giustizia riparativa e migrazioni

La domanda etica relativa all’accoglienza dei migranti assume ordinariamente una duplice forma. Dal punto di vista dei migranti: le persone godono di un diritto a migrare? Dal punto di vista dello stato: si può porre un limite alla migrazione?

Parliamo di migranti e migrazioni senza coordinate direzionali, desiderando considerare gli aspetti di origine e di destinazione – emigrazione/immigrazione – come simmetrici. Tuttavia lo sono realmente dal punto di vista etico? 

Una questione di giustizia

Sin dal tempo di Aristotele, perlomeno, la filosofia discute il tema della giustizia. Una lettura della storia del concetto di giustizia, come quella proposta da Alasdair MacIntyre, evidenzia la complessità dei processi che accompagnano la nascita, lo sviluppo, la combinazione e la morte delle diverse teorie proposte. Elenchiamo, sapendo di non essere esaustivi, qualche elemento essenziale perché si dia una questione di giustizia.

Un primo elemento, di sostanza, è la «posta» da dividere, dichiarata nei pronomi personali possessivi tuo – mio. Ogni atto divisorio è un atto umano: sono impegnate consapevolezza e libertà chiamate a responsabilità. Supponendo una reciprocità al 50%, ci chiediamo: è sancita l’uguaglianza? Nelle questioni di giustizia sono poi presenti diversi altri elementi: la posizione dell’altro da sé, il rapporto di proporzionalità, la considerazione del merito. In quanto questione di giustizia, la migrazione è una questione etica a risposta complessa.

Riconoscimento dell’altro come altro

Prima e oltre ogni dinamica di proporzionale equità, è però necessaria la ricerca di un principio fondante. Il riconoscimento reciproco e la conseguente relazione riconoscente è la sola forma di rapporto nella quale due o più soggettività possono convivere, in tutta la grandezza delle possibilità dischiuse dal loro esserci.

Ogni soggettività necessita di essere riconosciuta come un orizzonte di senso non-valicabile, intenzionalmente infinito. Dove manca un riconoscimento reciproco di fondo, le diverse soggettività combatteranno, ininterrottamente, per la vita e per la morte. Nel riconoscimento reciproco, inoltre, il pluralismo culturale è positivamente conservato proprio perché tangibilmente superato.

Il principio del riconoscimento reciproco e la giustizia riparativa 

La Direttiva 29/2012 dell’Unione Europea, all’art. 2.1, qualifica la giustizia riparativa come «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale».

Disporsi liberamente e attivamente per sciogliere azioni conflittuali, che emergono da percezioni di ingiustizia, significa apprestarsi al riconoscimento reciproco, quale possibilità di constatare da un lato il male fatto a un proprio simile, e dall’altro ad abbandonare sentimenti vendicativi. 

Gli uomini, remotamente, conoscono l’importanza del riconoscimento reciproco e lo definiscono con la cosiddetta «regola d’oro» («Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»; «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella versione positiva eletta dalla tradizione cristiana).

Il movimento di riconoscimento si riferisce all’intero dell’esistenza di un essere umano, e favorisce l’attivazione di modalità relazionali; è un moto narrativo innescato da chiunque lo desideri, perché appartiene alla struttura dialogica dell’essere umano, che diventa etico quando viene deciso e assunto consapevolmente.

 

Giovanni Angelo Lodigiani è docente stabile di Etica teologica presso l’ISSR Sant’Agostino (Crema, Cremona, Lodi, Pavia, Vigevano) e di Giustizia riparativa e mediazione penale presso l’Università degli studi dell’Insubria Como-Varese.

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