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Moralia Blog

Referendum: un «no» che aiuterà a crescere?

In vista del referendum dello scorso 17 aprile, i contributi di Gaia De Vecchi e Simone Morandini hanno ampiamente illustrato le buone ragioni del voto. Com’è noto è andata diversamente, ma vale la pena di non considerare semplicemente la questione un capitolo chiuso, come spesso si ha la tentazione di fare con gli esiti referendari.

 

C’è sempre da imparare…

C’è sempre da imparare dalle scelte che abbiamo fatto: che abbiano colto nel segno circa la miglior cosa che si potesse fare, o che abbiano fallito – a volte anche drammaticamente – c’è (quasi) sempre modo di ritornarci su e raddrizzare il tiro per le prossime volte in cui si presentino situazioni analoghe. Al proposito la nostra tradizione morale parlava di esame di coscienza, il cui scopo non è unicamente il rimorso ma anche l’analisi di come è andata, e di epikeia, cioè la ricerca di equità in tutte quelle circostanze in cui le buone norme che ci hanno insegnato si rivelano insufficienti, rispetto a quanto un’attenta coscienza vi scorge di meglio.

 

Chi è andato a votare e chi no

Del referendum sulle «trivelle» molti hanno colto l’inutilità, non andando a votare. Il quesito, si è detto, è troppo tecnico per essere valutato politicamente con lo strumento del voto referendario, e pertanto – hanno aggiunto molti – lo si è caricato di valenze simboliche e ideologiche: quindi chi ci è andato, a votare, avrebbe inteso ben altro rispetto a ciò per cui si è di fatto espresso.

Nel prenderci cura dell’ethos in cui si esprime il nostro legame sociale non possiamo trascurare la cosa. Intanto c’è una disaffezione allo strumento del referendum, per l’incoerenza con cui i parlamenti troppo spesso ne aggirano gli esiti: e questo impegna la classe politica ad una riflessione critica circa il rapporto tra mandato popolare e impegno per la realizzazione del maggior bene politicamente praticabile.

 

Troppo tecnico?

Ma c’è pure una questione specifica da affrontare: se questo referendum è parso troppo tecnico significa che c’è stato un difetto di comunicazione, e quando si tratta di beni comuni (risorse energetiche, suolo, acque) un tale difetto implica la perdita di controllo da parte dei cittadini su una materia che riguarda la loro esistenza e convivenza.

Per quanto si sia discusso se sia un tappo migliore la trivella in funzione o quella dismessa, o su quanti licenziamenti sarebbero occorsi e con chissà quale termine di tempo – faccende indubbiamente tecniche – in effetti il quesito riguardava altro: vogliamo concedere a portatori di interessi privati l’accesso a una risorsa di tutti a tempo indeterminato, sapendo che in questo modo potranno estrarre su un arco temporale illimitato quantità annuali modeste di gas e petrolio, garantite dalle franchigie che permettono di non pagare royalties?

Cioè è lecito che un privato si appropri di un bene comune e lo commercializzi senza che ci sia una redistribuzione di questa ricchezza tra la popolazione? E ancora, poiché la legge che abbiamo avvallato con il non voto concede di procrastinare fino a quando si vorrà l’esaurimento del giacimento, chi imporrà lo smantellamento degli impianti a carico delle compagnie?

 

Per i beni comuni

Non sarà che un giorno queste ultime scompariranno (o come spesso accade si trasformeranno) lasciando orfane le piattaforme ormai degradate, la cui eutanasia sarà ulteriormente a carico della collettività? Ossia un’ennesima privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite, dove pochi hanno guadagnato e tutti pagano.

Lo stato che convoca i cittadini a votare, ancor prima dei promotori dei referendum, deve aver cura di spiegare ai cittadini quanto sono effettivamente chiamati a decidere, altrimenti il voto diventa una sorta di truffa che regala solo costi di esercizio, disaffezione alla partecipazione e, quel che è peggio, impossibilità di decidere dei beni comuni.

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