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Moralia Blog

Quale teologia per una morale autonoma

«Il carattere scientifico della teologia morale esige che il teologo dichiari esplicitamente il suo indirizzo filosofico, perché ciascuno possa verificare la coerenza interna della sua riflessione».[1]

Da una dichiarazione d’intenti...

Questa dichiarazione d’intenti nei manuali di teologia morale fondamentale è merce rara, pertanto quando ci si imbatte in essa non si può che lodarla, al di là delle dichiarazioni che poi si fanno sul metodo assunto e sulla coerenza più o meno riuscita dell’orizzonte su cui si è fatta la scelta di collocare e dipanare la propria riflessione.

E questo perché non sempre – purtroppo ahimè – si pensa che per scrivere sui temi classici, che di solito costituiscono il contenuto di un manuale di teologia morale fondamentale, sia necessario dedicare un ampio spazio alle questioni di epistemologia.

...a un’intenzione di dichiarare altro

Qui però non è mia intenzione discutere l’indirizzo filosofico del teologo da cui ho tratto la citazione iniziale, né fare l’elenco degli indirizzi, per lo più latenti e ancor peggio latitanti, dei manuali di teologia morale fondamentale, ma provare a modificare un tantino la citazione e cercare di porre una questione che secondo me è cruciale: il carattere scientifico della teologia morale esige che il teologo dichiari esplicitamente il suo indirizzo teologico, perché ciascuno possa verificare la coerenza interna della sua riflessione.

Proviamo a mettere in un dittico le due frasi e, come in un divertente gioco in una rivista di enigmistica, poniamo il quesito: trova la differenza!

A quale teologia rivolgersi?

La differenza sta nell’indifferenza che sembra esserci nel problema che voglio porre all’attenzione: posto che chiunque può vivere moralmente anche senza fede (la morale autonoma che ho sempre in questa sede sostenuto), quale teologia è componibile con questa verità?

In altre parole, sarebbe necessario cominciare a non farci più bastare il solo presupporre come chiaramente univoco il principio epistemologico della rivelazione divina in Cristo e poi andare alla ricerca di un indirizzo filosofico che con tale principio risulta più congeniale, producendo una serie di titoli del tipo: quale filosofia per la teologia morale? Ma cominciare a chiederci: posto che la fede non coincide con ciò che sulla fede possiamo pensare, interpretare, scrivere (c’è sempre differenza tra salvezza e modi di interpretarla e comprenderla), di quale indirizzo teologico la teologia morale avrebbe urgentemente bisogno per disporre di concetti chiari perché già chiariti in ambito teologico-fondamentale? Penso ad alcune coppie di concetti che, se chiari e chiariti in un ambito, lo saranno ancor di più nell’altro:

– universalità della salvezza e universalizzabilità della morale;

– mistero della creazione e interpellabilità morale;

– identità tra autonomia del mondo/dipendenza da Dio e autonomia morale ed esperienza dell’incondizionato;

– mistero dell’incarnazione/redenzione e comunicabilità della verità morale nel guazzabuglio della vita delle persone tra contraddizioni, conflitti, possibilità;

– concetto precipuamente teologico di parola di Dio e natura delle norme morali.

Una domanda peregrina?

Faccio finta di aver esaurito l’elenco, ma si potrebbe, in verità, ancora continuare a esplorare altre coppie di concetti, con l’intento di assumere fino in fondo quello che è sotto gli occhi di tutti, ma non sempre dentro la testa di chi ha il compito, come il teologo moralista, di servire col suo lavoro intellettuale proprio tutti costoro, ovvero: se la fede implica la morale, ma la morale non implica il riconoscimento esplicito della fede, allora di quale comprensione e interpretazione della fede ha bisogno l’esperienza di coscienza per non andare con-fusa con l’esperienza di fede ma da quest’ultima dif-fusa in termini di stimoli e visione allargata e profonda?

Un invito alla lettura

E, allora, se posso permettermi qualche suggerimento in tal senso, un contributo teologico molto ma molto interessante è quello di Wilhelm Klein che G. Trentin già da qualche anno a questa parte sta facendo conoscere al lettore italiano.[2]

Ultimamente è ritornato a parlarne,[3] offrendo nuove prospettive proprio dai colloqui che ebbe direttamente con questa figura di teologo, filosofo, direttore spirituale e formatore gesuita. Qui, succintamente, vorrei solo annotare qualche passaggio che offre addentellati – direi – performativi per la teologia morale.

Klein sostiene che il mondo non separato da Dio è l’amore che si diffonde in tutta la creazione. Di tutta la creazione! Dio si fa carne e non semplicemente uomo, Gesù è teologicamente, simbolicamente dunque (nel senso realisticamente teologale), Dio in Maria, il Creatore nella creatura, se è vero che il Verbo è Dio e in principio (nella creazione) era il Verbo.

Allora, tutta la Rivelazione parla della creazione, che è incarnazione e redenzione, perché Dio è uno solo e la Rivelazione è lui. Anche il diavolo ne fa parte, costui è figura-simbolo della contraddizione e in fondo la salvezza è il superamento di questa contraddizione. L’amore di Dio e del prossimo si traduce in amore di Dio «nel» prossimo, facendo dell’amore il criterio ultimo della fede, anzi rendendo l’uomo che ama il vero uomo che crede.

Theologia inveniens ethicam

Questa lectio, nella quale «creazione-incarnazione-redenzione» sono la stessa cosa, inferisce sul piano sia della fede sia del problema del peccato (altro grande capitolo dei manuali di teologia morale fondamentale), perché chi crede è chi ama e pur essendo fatto male (il principio diavolo) può far bene (il principio Maria che è l’Agape nella creatura).

Gli impulsi sono «potenti» e «potenziali» per la teologia morale, la quale, se si fa da essi provocare, dovrebbe divenire un laboratorio di pensiero sempre più inclusivo (nel senso rintracciabile in Gaudium et spes, n. 22) e svolgere la sua funzione critica, stimolante e fondativa.

Quanto ci dice G. Trentin, sollecitato dai tanti colloqui con Klein, è quanto mai incoativo di questo processo: «Solo chi ama, chi vuol bene e fa il bene, per quanto si definisca non-credente, crede in modo vero, autentico, credibile, nella misura in cui pratica quella “fede che opera attraverso la carità”».[4]

 

 

[1] C. Zuccaro, Teologia morale fondamentale, Queriniana, Brescia 2013, 38.

[2] G. Trentin, In Principio. Il «mistero di Maria» nei manoscritti di Wilhelm Klein, Messaggero, Padova 2005; Id., Il Principio Maria. Nuove prospettive dai manoscritti di Wilhelm Klein, Cittadella, Assisi 22019.

[3] G. Trentin, Il Principio Gesù. Nuove prospettive dai colloqui con Wilhelm Klein, Cittadella, Assisi 2021.

[4] Ivi, 123.

Commenti

  • 30/11/2021 Pietro Cognato

    Gentilissimo signor Beppe, se il VERO credente è colui che vuole e fa il bene - come le risulta evidente -, dovrebbe pure avere trovato la risposta alla seconda combinazione, ovvero che anche il non credente che vuole e fa il bene CREDE. Ho detto CREDENTE e non CRISTIANO. Se ha letto bene il post, non ho parlato di appartenenza specifica, ma di presupposto antropologico e - direi - teologico fondamentale su cui poi si può istruire una appartenenza specifica. Tuttavia, mi rendo conto che l'accusa di panteismo è dietro l'angolo. Ma la logica teologica che spira dalla stessa sacra Scrittura si muove su questo filo sottilissimo tra trascendente e immanente: Dio è qui ma altrove, lontano ma intimo, presente ma invisibile, Colui che non è il mondo ma senza il quale il mondo non sarebbe, ecc.....ecc.... Quindi accetto quanto le può sembrare che io abbia detto. L'importante è dialogare fraternamente tra noi. Cordialmente Pietro Cognato

  • 26/11/2021 Beppe Levi

    Che solo il credente che vuole e fa il bene sia un vero credente, mi è evidente. Non mi è evidente che il non credente, per il fatto che vuole e fa il bene, CREDA. Crede che sia bene per la convivenza sociale che gli uomini non si ammazzino a vicenda ma si aiutino fra loro. Ma la dimensione TRASCENDENTE, quella che impegna la fede, il CREDERE, oltre il ragionare il buon senso umano, gli è estranea. Confondere i due piani, in questo ambito, è proprio del panteismo immanentistico. Almeno sic mihi videtur.

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