Quale libertà per quale culto?
Oltre quale soglia la libertà di culto degenera nell’arbitrio di un formalismo spiritualistico? L’interrogativo è diventato d’obbligo, ai tempi del COVID-19.
La risposta non è per nulla ovvia. I liturgisti ci insegnano che la forma è sostanza. Le modalità effettive con cui il rito è praticato non sono affatto indifferenti affinché si realizzi autenticamente la mediazione simbolica della realtà celebrata.
Nella liturgia eucaristica ciò emerge con tutta evidenza. Per sua natura, essa non è una rappresentazione intellettuale, bensì mette in contatto in molti modi i corpi proprio nell’orizzonte della comunione con il corpo di Cristo. Se si sottrae all’eucaristia questa dinamica del «corpo a corpo», la si svuota del suo nucleo fondamentale, e ciò che ne rimane è solo un pallido ectoplasma. Eppure, è proprio questo nucleo fondamentale a costituire un problema, nella situazione epidemica in cui ci troviamo.
Domande difficili per tempi complicati
È vero che l’eucaristia fa la Chiesa, ma non bisogna dimenticare la verità reciproca, ossia è la Chiesa che fa l’eucaristia. La Chiesa, d’alto canto, non è un’entità astratta, bensì la con-vocazione di uomini e donne in carne e ossa. I cattolici non abitano in un mondo a parte, bensì condividono il mondo di tutti. E il mondo qui e ora è alle prese con un’emergenza sanitaria senza paragoni da un secolo a oggi. Sarebbe davvero il culmine del paradosso se i cattolici, radunandosi con l’intento di celebrare la Vita, finissero in effetti per comunicarsi la morte e diffonderla nel contesto in cui abitano.
Si dice – certo con buone ragioni – che la Chiesa non può fare a meno della celebrazione eucaristica, in quanto ne va della sua identità teologale e della sua forza testimoniale. Dunque, varrebbe la pena di scendere ai dovuti compromessi per rendere la forma compatibile con le esigenze di sicurezza, pur di salvaguardare anche in tale situazione eccezionale la libertà dell’accesso intatto alla sostanza.
Nondimeno è inevitabile domandarsi: quale sostanza di comunione con Dio e con gli altri è in grado di esprimere la forma di un’assemblea selezionata, composta da monadi che indossano mascherine e guanti, ben distanziate le une dalle altre per timore del contagio, come dentro un supermercato o un museo qualsiasi? Davvero può «fare» la Chiesa come corpo di Cristo un’eucaristia celebrata in maniera tale, per cui la forma finisce inevitabilmente di tradirne la sostanza? È lecito insomma celebrare a ogni costo, anche a prezzo di compiere un atto liturgico canonicamente valido, ma ecclesialmente inefficace?
Concezione del sacramento e stile di Chiesa
La questione è niente affatto accademica o marginale. Il rischio serio è quello di tornare indietro – dopo cinquant’anni di riforma conciliare – a una concezione del sacramento come rito che funziona comunque sia, in quanto dotato di un automatismo soprannaturalistico.
Il primo segnale di tale regressione è stata a mio avviso l’eccessiva facilità con cui, quando l’emergenza pandemica ne ha di fatto reso impossibile la celebrazione nella sua modalità pubblica, è parso subito che la soluzione più ovvia fosse quella di continuare a riproporre l’eucaristia, concentrandone però l’azione nel solo ministro ordinato, rendendo così la presenza dell’assemblea una variabile indifferente, magari rimpiazzabile senza troppo imbarazzo dal suo simulacro virtuale.
Ora, affacciandosi timidamente la fase di un progressivo allentamento delle restrizioni, con altrettanta facilità si presume di far rientrare l’assemblea dei fedeli dalla finestra, dopo averla lasciata fuori dalla porta o relegata nell’infosfera. Tuttavia, come si notava all’inizio, l’operazione non si preannuncia per niente scontata, perché non basta un raggruppamento purchessia per essere nelle condizioni di affermare che lì è proprio il popolo di Dio a venire radunato.
Da questo punto di vista il dramma della pandemia è stato a suo modo una «re-velatio», un toglimento del velo, che ha messo allo scoperto un limite strutturale della nostra realtà ecclesiale. Si invoca, anzi addirittura si «esige» la libertà di culto, senza però discernere adeguatamente quale comunità sia il soggetto di questa libertà e quale culto sia a misura dell’Evangelo di Gesù. È nientemeno che uno stile complessivo di Chiesa che si trova posto in questione. Potrebbe essere una crisi di ri-nascita, ma nulla garantisce che l’occasione favorevole sarà effettivamente colta.
Duilio Albarello è presbitero diocesano, insegna Teologia fondamentale e antropologia teologica a Fossano ed è docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e al biennio di specializzazione in Teologia morale a Torino. Tra le sue pubblicazioni La grazia suppone la cultura (Queriniana, Brescia 2018).