Prudenza tecnologica al tempo del coronavirus
Così scriveva Pio XII nel 1957 nell’enciclica Miranda prorsus su cinema, radio e televisione:
Il sacerdote in cura d’anime può e deve sapere quel che affermano la scienza, l’arte e la tecnica moderna, in quanto riguardano il fine e la vita religiosa e morale dell’uomo. Deve sapere servirsene quando, a prudente giudizio dell’autorità ecclesiastica, lo richiederà la natura del suo sacro ministero e la necessità di giungere a un più gran numero di anime. Deve, infine, se ne usa per sé, dare a tutti i fedeli l’esempio di prudenza, di temperanza e di senso di responsabilità.
È un documento verosimilmente molto poco conosciuto, ma che rivela grande saggezza mista ad autentica ammirazione da parte del pontefice delle meraviglie della tecnica del suo tempo.
Tecnologia digitale e creatività pastorale
Ribadisco le parole sagge del documento: conoscere per usare, per sé e per altri, in nome della causa del Vangelo ma con prudenza, temperanza e senso di responsabilità. La pandemia, insieme alla situazione sociale ed ecclesiale totalmente inedita che viviamo, sconcerta e ci costringe a una particolare pazienza e creatività pastorale, del resto auspicata dallo stesso papa Francesco.
La nostra Conferenza episcopale emana norme che aiutano a vivere alcuni momenti liturgici con attenzione al sacramento che si celebra e alle persone coinvolte, ma non è sufficiente.
In questa pandemia che è anche infodemia, cioè una circolazione incontrollata di informazioni spesso fuorvianti e inesatte, dobbiamo vigilare sul gregge che ci è stato affidato e su noi stessi per evitare una liturgodemia.
Ci sono alcuni atteggiamenti dettati dal cuore e da slanci di autentica generosità, che rischiano però di ottenere esisti opposti rispetto alle genuine intenzioni di partenza. Tali atteggiamenti diventano virali, esattamente come il coronavirus, e suscitano richiesta di imitazione e a loro volta imitazione.
Mi riferisco in modo particolare ad alcune modalità di celebrazione on-line, soprattutto attraverso Facebook o Instagram, di messe, benedizioni eucaristiche e adorazioni eucaristiche. Così come varie forme di devozione organizzate in modo frettoloso, senza accorgimenti tecnici e utilizzando, com’è del resto comprensibile, ciò di cui si dispone.
Il mezzo è il messaggio
Le tecnologie digitali, lo abbiamo più volte ribadito in questa sede, non sono neutre e non sono neutrali. Esse veicolano non solo il messaggio che viene loro consegnato, ma sono esse stesse un messaggio e un messaggio potente, perché più silente e pervasivo.
Sempre Pio XII avvertiva:
«Come massimi vantaggi, così anche massimi pericoli possono nascere dai meravigliosi progressi tecnici moderni nei settori del cinema, della radio e della televisione». E oggi aggiungerebbe, come Francesco e Benedetto XVI hanno fatto, i media digitali.
La vicinanza che dobbiamo al popolo di Dio deve essere anche educativa. Questo spazio ci permette una sola considerazione: i media digitali sono caratterizzati, come ha efficacemente sintetizzato Massimo Mantellini, da una bassa risoluzione. Non importa la qualità della foto, basta che si capisca, poco significativa è l’inquadratura, basta che si intravveda. Quantità, di pessima qualità. Questo, avverte l’autore, ci ha portato ad abbassare le nostre aspettative.
Non stiamo trasformando la preghiera, la liturgia, la catechesi in intrattenimento? La bassa risoluzione comporta un valore prossimo a zero di ciò che è rappresentato, davvero questo è il valore che diamo a Chi rappresentiamo?
Mi rendo conto che queste considerazioni possono suonare poco empatiche e che in caso di emergenza si deve rompere il vetro. Ma non stiamo rompendo qualche cosa di più oltre al vetro?
Luca Peyron è presbitero della Diocesi di Torino, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità dell’innovazione all’Università degli studi di Torino. È autore di Incarnazione digitale (Elledici, Torino 2019).