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Moralia Blog

Parigi, Nizza, Lione, Vienna. Ancora guerre di religione?

Non è sufficiente esecrare, ma occorre avere il coraggio di dire che uccidere nel nome di Dio è sempre blasfemo, e offende e distrugge il messaggio di pace dell’islam

Il riflesso condizionato – dopo Parigi, dopo Nizza, dopo Lione, dopo Vienna – è di gridare, all’impronta, al ritorno in campo delle guerre di religione. Dello scontro di civiltà (fuori tempo massimo, direi, ma tant’è). Un paradigma di cui, per un lungo attimo, ci eravamo scordati, impegnati in un’altra lotta ancor più insidiosa, contro un virus maledettamente subdolo.

Eppure è stato lo stesso cancelliere austriaco Sebastian Kurz a rifiutare risolutamente tale lettura semplificatoria, aggiungendo che l’Austria «non cadrà nella trappola del terrorismo»; mentre qualche giorno fa era stato Emmanuel Macron, facendo memoria dei caduti francesi, a dichiarare che il valore della laicità, su cui si fonda la tradizione transalpina, non può mai essere messo in gioco. Sacrosante parole, ai miei occhi.

Detto ciò, di fronte a quanto sta accadendo è sufficiente ripetere come un mantra che islam significa pace, da salaam, che l’islam non c’entra, o che l’islam è un’altra cosa, e così via? Credo di no.

Dentro le contraddizioni

In realtà, mi pare che dovremmo il più possibile entrare dentro le contraddizioni interne all’islam, decifrarle e denunciarle; ma anche dentro le contraddizioni del campo cristiano o occidentale (beninteso, entrambi gli aggettivi, tutt’altro che vergini, avrebbero bisogno di mille precisazioni, e vanno usati con le molle), relative alla nostra incapacità di pensare l’islam, di riflettere sull’urgenza di un maggiore investimento ecclesiale sulla conoscenza dell’islam e sulle pratiche di dialogo cristiano-islamico (il card. Martini ne scriveva trent’anni fa, con parole ancora attualissime ancorché inascoltate, in Noi e l’islam).

Il che parrebbe evidente, ma evidentemente non lo è, se riflettiamo sul fatto che l’attuale fase di pluralismo religioso mondialmente diffuso non è da intendersi come momentanea o addirittura emergenziale, bensì come un dato strutturale e permanente della postmodernità.

Una fitna in atto

Il fatto è che, ancora una volta, va ricordato che ciò i terroristi operanti nel nome di Allah, negli ultimi anni, vorrebbero scatenare, lupi solitari o a qualsiasi fazione si richiamino, sembra una guerra ma in realtà è una fitna, uno scontro fratricida per l’egemonia all’interno della umma, la comunità islamica (come fra i primi e da tempo ha colto il sociologo Gilles Kepel, ad esempio, già oltre 15 anni fa nel suo Fitna).

Se i loro obiettivi simbolici sono di volta in volta i cristiani in Siria o gli yazidi in ciò che è divenuto l’Iraq, una testata satirica, un locale alla moda o una chiesa, l’obiettivo reale è l’islam che si sforza di dialogare, firma la Dichiarazione di Abu Dhabi con il papa e si confronta con la dimensione dell’alterità, concependo la prospettiva, in tali modalità per la prima volta nella sua storia, di una (faticosa, certo) convivenza multireligiosa, e giungendo ad apprezzare il già citato principio di laicità che tutela le libertà di ogni uomo e ogni donna, a prescindere dal fatto che creda e da come creda.

E se la buona notizia è che in questi ultimi anni non pochi musulmani di tutto il mondo hanno condannato senza mezzi termini gesti orrendi come gli attentati di marca jihadista, quella cattiva è che sia l’Occidente sia gran parte del mondo islamico non colgono ancora lo scopo primario di una simile strategia. Perché condannare è sì importante, anzi necessario, ma non basta. Strada per strada, chiesa per chiesa, moschea per moschea bisognerebbe spiegare che non siamo spettatori o protagonisti di uno nuovo scontro di civiltà, di un armagheddon tra la cristianità, a sua volta in grave crisi, e l’islam globale.

Uccidere nel nome di Dio è sempre blasfemo

Non è così, e per questo non è sufficiente esecrare, ma occorre avere il coraggio di dire, come continua a fare papa Francesco, che uccidere nel nome di Dio è sempre blasfemo, offende e distrugge il messaggio di pace dell’islam, cancella secoli di prossimità e persino di fraternità abramitica.

Senza mai dimenticare il ruolo indispensabile della politica, chiamata a fare meglio e di più la sua parte, proprio mentre – anche al netto dello tsunami pandemico in corso – sembra aver smarrito tanto gli antichi slanci ideali quanto i fondamentali disegni generali, nel garantire l’ordine, la giustizia, la convivenza sociale, la pace.

Rischiando fra l’altro di lasciare solo il vescovo di Roma – si veda la sua ultima enciclica, Fratelli tutti – nel suo sforzo di rendere evidenti le buone ragioni (umane, ancor prima che teologiche) del dialogo e dell’incontro fra le civiltà.

 

Brunetto Salvarani dirige il periodico del dialogo cristiano-ebraico QOL, ed è docente di Missiologia e Teologia del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna di Bologna e gli Istituti di studi teologici di Modena e Rimini. Ha scritto tra l’altro Dopo. Le religioni e l’aldilà, Laterza, Roma-Bari 2020.

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