Pace in Siria: con quale giustizia?
Quale pace giusta per la Siria? Il conflitto tra governo e ribelli è praticamente finito: i russi (con iraniani ed Hezbollah) hanno fatto vincere il regime di Al-Assad, e si è in una fase di transizione. Come applicare oggi in Siria i processi della transitional justice?
Giustizia di transizione
La «giustizia di transizione» è finalizzata a ricostituire un tessuto sociale dopo guerre civili, genocidi o gravi violazioni dei diritti umani da parte di regimi: contesti in cui spesso non è possibile punire tutti i rei attraverso il sistema giudiziario classico (retributivo), per il costo dei processi e perché molti poliziotti e giudici sono complici o sotto accusa.
Con processi «esemplari» o accusando solo i «più cattivi» (dei perdenti) si rischia di avere solo dei «capri espiatori», offuscando la responsabilità di tanti.
Un’amnistia generale, d’altro canto, seppellirebbe la verità e ignorerebbe le sofferenze delle vittime, nella speranza (poco realistica) che il tempo e la ripresa economica guariscano tutto.
I modelli di giustizia riparativa (restorative justice), come quello della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica dopo l’apartheid, evitano l’impunità selettiva o totale.
I nodi da sciogliere
Amici religiosi, che conoscono da vicino la realtà siriana, mi hanno suggerito elementi per questa analisi: un vero processo di pace dovrà sciogliere due nodi complessi principali e altri due secondari.
1) I siriani curdi chiedono una regione autonoma nel Nord-est del paese, ma i turchi non accettano questa soluzione perché a loro dire fornirebbe armi ai curdi indipendentisti in Turchia. Anche gli altri siriani difficilmente cederebbero parte dei propri territori: si parla di una provincia a maggioranza curda prima del 1927, ma molti curdi vi sono arrivati dopo e vengono visti dai concittadini siriani come complici dei turchi nel genocidio armeno, e come tali da non «premiare». Nonostante ciò, il modo in cui gli USA hanno abbandonato alla mercé dei turchi gli alleati curdi, che tanto si sono sacrificati contro il «Califfato», è vista generalmente come un’infamia.
2) Molti «ribelli» da tutto il paese (circa 1 milione tra jihadisti, affiliati ad Al-Qaeda, pro-Qatar, pro-Arabia Saudita, pro-Occidente ecc.) si sono rifugiati nel governatorato di Idlib con le loro famiglie, cercando protezione dalla «giustizia» del governo «vincitore», che rischia di essere vendicativa. Alcuni vogliono una zona nel Nord sottratta al controllo del governo e protetta da Russia/Turchia/USA/UE, che includerebbe Idlib, le zone curde e i pozzi di petrolio che finanziavano il «Califfato»: qui si potrebbero disarmare le milizie e rimpatriare i rifugiati siriani dalla Turchia, giacché l’economia di questa regione è solida.
Il governo siriano, però, non vuole perdere il controllo del Nord. I russi, che controllando il paese da Tartus potrebbero obbligare il governo a negoziare la pace con le milizie, non si fidano di queste, troppo vicine a governi sunniti o occidentali. L’altra possibilità sarebbe un’amnistia generale, trasferire queste zone al governo, disarmare le milizie e fare tornare tutti ai comuni di origine: ma i miliziani non si fidano di Al-Assad.
I due nodi secondari sono i seguenti: che fare con i militanti dell’ISIS imprigionati dai curdi, molti dei quali non sono siriani (alcuni sono cittadini UE o USA) e certamente non sono graditi nei loro paesi di provenienza? Chi controllerà i pozzi di gas e petrolio conquistati dall’ISIS?
Come garantire una giustizia di transizione verso la pace?
Dopo vari tentativi l’unica strada credibile è il Comitato costituzionale siriano, riunitosi a Ginevra per redigere una nuova costituzione. Si spera che i membri possano finire il lavoro prima delle elezioni del 2021 e garantire un processo elettorale credibile.
Sembra che le potenze mondiali coinvolte (Turchia, Iran, Russia, Stati Uniti, Unione Europea e Arabia Saudita, che hanno inviato dei delegati per dare pieno sostegno ma non partecipano direttamente) e le Nazioni Unite (che agiscono come facilitatrici) siano d’accordo nel raffreddare la situazione, appoggiando il processo ed evitando il tema del cambio di regime fino alle elezioni. Forse solo nel 2022 si affronteranno i nodi più problematici con una vera transizione politica, facendo la giustizia e costruendo la pace.
Per molti siriani il conflitto in Siria è uno scontro tra grandi potenze mondiali, così che governo e ribelli non si rappacificheranno finché saranno marionette mosse da altri. Si consentirà ai siriani di risolvere i loro problemi dopo il 2021? Entra qui in gioco un altro fattore decisivo per la stabilità e la pace: i finanziamenti.
Nella congiuntura attuale, i fondi per la ricostruzione più che da USA, Iran, Russia, Turchia e UE verranno da Arabia Saudita, Qatar ed Emirati: poiché la stabilità dei futuri governi dipenderà da loro, dovranno essere anch’essi parte del processo di pace.
Le religioni (in Siria ci sono sunniti, sciiti, drusi, alawiti, ismaeliti, cattolici, ortodossi, protestanti…) possono giocare un ruolo importante nel cammino di pace, ma se insistono nel controllo delle varie zone (come in Bosnia) o su un sistema politico confessionale (come in Libano e Iraq) difficilmente si potrà riunificare il paese e ricostruirlo evitando corruzione e populismo.
La Chiesa cattolica siriana e il Patriarcato ortodosso di Antiochia sono ben stimati, insieme a gruppi protestanti, per l’aiuto offerto durante il conflitto anche a musulmani. C’è un ruolo per noi cristiani anche fuori dal paese: appoggiare i processi di pace attraverso la giustizia riparativa, ricostruendo una società civile onesta, ecumenica e dialogante in cui formare la classe politica siriana del futuro.
René Micallef, religioso gesuita, è docente incaricato associato nella Facoltà di teologia della Pontificia università gregoriana.