Odio sui social. Ritornano i vecchi vizi
All’inizio ci siamo detti e ripetuti – quasi per autoconvincerci – che fronteggiare il dramma inaspettato della pandemia ci avrebbe resi migliori. Adesso, ad alcuni mesi dall’avvio della «Fase 2», ci stiamo rendendo conto che non è andata come auspicavamo.
Passato lo spiazzamento straniante del lockdown e ritrovata la percezione euforica di una «nuova normalità» più volontaristica che reale, si ripresentano con implacabile puntualità i vizi e i pregiudizi, da cui attendevamo di esserci emendati miracolosamente, grazie al passaggio attraverso il fuoco purificatore dell’infezione virale.
Una parola che uccide la differenza
Tra le varie forme di questo «mal-essere» di ritorno spicca in particolare la corposa rimessa in circolo di quello che viene spesso denominato come il «linguaggio dell’odio». Si tratta di una piaga, che diventa emblematica di ogni prepotenza esercitata su chi è stigmatizzato in quanto portatore di una «differenza».
Non a caso tale piaga si accanisce con peculiare spietatezza contro le donne: in effetti la differenza reciproca dell’uomo rispetto alla donna e della donna rispetto all’uomo è considerata da sempre come una sorta di matrice simbolica di ogni rapporto con l’«alterità». Un rapporto, che può essere vissuto tanto come arricchimento di senso, quanto come movente di sopraffazione.
L’«altro» – qualunque altro portatore della sua irriducibile differenza di genere, di etnia, di religione – si espone al rischio di essere percepito come latore di una minaccia, anziché donatore di una promessa.
Per questo la violenza verbale (e non solo verbale, ovviamente) rivolta contro la donna è per eccellenza la «cartina al tornasole», che misura il grado di autentica civilizzazione raggiunto da una società. Infatti è «incivile» qualsiasi idea, scelta, gesto che in ultimo miri a sopprimere l’altro proprio in quanto «altro», proprio in quanto con il fatto stesso di esserci «fa» la differenza rispetto a un ordine costituito, a una gerarchia prestabilita, a una normalità prescritta.
Poiché ognuno di noi è «altro dell’altro», nessuno può ritenersi a priori preservato dal pericolo di ritrovarsi a un certo punto discriminato e letteralmente «violentato» a motivo della diversità irriducibile che lo connota. Per questo la resistenza attiva contro il linguaggio dell’odio ci interpella tutti, nella misura in cui tutti siamo esposti al rischio di diventare carnefici o vittime di esclusione.
Quando la comunicazione diventa manipolazione
Tale fenomeno, che infetta pericolosamente le relazioni interpersonali e collettive, si manifesta con particolare virulenza tra le fila del cosiddetto «popolo dei social».
Le sue forme espressive sono ad esempio il cyber-bullismo e il body shaming; qui però vorrei portare l’attenzione verso una sua ulteriore modalità, tipica dell’infosfera, ossia le fake news.
Si tratta dello strumento privilegiato di quella che il filosofo coreano Byung-Chul Han chiama «la psico-politica digitale». La loro forza sta nel dribblare il vaglio della razionalità per puntare dritto alla percezione emozionale. Prima ancora di essersi posto la domanda se ciò che un testo o un’immagine rappresenta è vero oppure falso, il navigatore social ha già compulsivamente ritwittato o condiviso, poiché appunto quella rappresentazione corrisponde alla sua percezione emotiva/dualistica della realtà.
Per questo i populismi considerano le fake news come uno dei mezzi più efficaci della loro propaganda, funzionale a una visione estremamente semplificata del mondo. Tutto è classificabile immediatamente come bianco o nero, bene o male, amico o nemico. Le sfumature su cui lavora con fatica la razionalità sono un impaccio superfluo per l’ideologia populista.
Di conseguenza la battaglia contro la comunicazione manipolante della psico-politica populista deve essere affrontata anzitutto e soprattutto sul piano culturale. Se si cede alla tentazione di combattere ad armi pari, ci si condanna fatalmente alla sconfitta, poiché quelle armi il populismo le sa usare in maniera imbattile.
In ultimo, il linguaggio dell’odio si può contrastare soltanto attraverso la «cultura del dialogo», per citare un denso passaggio del discorso di papa Francesco al Convegno ecclesiale di Firenze:
«Dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile».
*Duilio Albarello è presbitero diocesano, ha conseguito il dottorato alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano. Insegna teologia fondamentale e antropologia teologica a Fossano; è inoltre docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e al Biennio di Specializzazione in teologia morale a Torino.