Morire per «vita completata». Le insidie della proposta olandese
In Olanda si sta discutendo di un’eventuale integrazione della legge sull’eutanasia e sul suicidio medicalmente assistito approvata nel 2002.
A fronte di alcune proposte governative, il Parlamento olandese è chiamato infatti a vagliare la legittimità della richiesta di morte formulata in maniera libera e consapevole da un soggetto di età avanzata (ultrasettantenne) non affetto da particolari patologie. Si tratta cioè di capire se i criteri dell’età minima e della libera volontà siano sufficienti a legittimare l’aiuto al suicidio di colui che desidera morire perché ritiene di aver portato a termine la propria vita.
In effetti il dibattito sul tema fa riferimento all’idea di una «vita completata» (voltooid leven), cioè di un’esistenza così manchevole di senso da originare nel diretto interessato la sofferenza di dover continuare a vivere e, di conseguenza, il desiderio persistente di morire.
Per poter legiferare rispetto a questa specifica condizione esistenziale, nel gennaio 2019 il Governo olandese ha affidato all’Università degli Studi umanistici di Utrecht un progetto di ricerca che, svolto in collaborazione con il Julius Centrum della stessa università, fornirà entro la fine dell’anno un rapporto d’indagine sul suicidio assistito nei casi di «vita completata». Anche attraverso sondaggi e questionari, lo studio intende indagare i contesti e i motivi che alimentano nei cittadini olandesi il desiderio di morte.
Una novità problematica
Il dibattito è ancora in corso, ma l’approccio suggerito mette già in discussione uno dei requisiti fondamentali sinora riconosciuto dagli stati che hanno legalizzato le pratiche eutanasiche, cioè la presenza di una grave condizione patologica da cui derivano sofferenze intollerabili e prolungate.
Tale requisito ha sinora giustificato il coinvolgimento del medico, sia in fase di diagnosi e di analisi critica della richiesta di morte da parte del paziente, sia durante l’esecuzione dell’atto eutanasico. Ebbene, se legalizzato, il suicidio assistito nei casi di «vita completata» non richiederebbe l’intervento del medico, perché i criteri dell’età minima e della libera volontà potrebbero essere verificati da una figura apposita.
Non a caso il Governo olandese ha già proposto di istituire a tale scopo il «consulente di fine vita», cioè un professionista che abbia svolto un percorso formativo in problemi esistenziali e psico-sociali.
Si è insomma dinanzi a una proposta assai discutibile, perché non c’è dubbio che il mancato ricorso a una valutazione clinica incoraggi una lettura sempre più soggettiva della sofferenza, fino a rendere indiscutibile il desiderio di morte espresso da chi soffre per il fatto di vivere.
Si rischia così di porre l’accento soprattutto sull’autodeterminazione del singolo e non si può escludere che, a lungo andare, venga abbassata l’asticella dell’età minima concedendo il suicidio assistito anche a chi non è ancora in età avanzata.
Vita completata o vita compiuta?
A riguardo è significativo sottolineare come il progetto di ricerca voluto dal Governo olandese non stia svolgendo delle indagini solo sulla popolazione ultrasettantenne. Infatti i sondaggi finalizzati a indagare il desiderio persistente di morte coinvolgono cittadini di età pari o superiore ai 55 anni (https://www.uitvrijewil.nu/). Oltre a essere una prova di possibili future derive, questo ampliamento del campione d’indagine mette in luce l’ambiguità del concetto di «vita completata».
Forse converrebbe piuttosto recuperare l’idea di vita compiuta o riuscita proposta dalla filosofia classica: si tratta di guardare alla vita che conduciamo come a un tutto, cioè come a un progetto che, per essere realizzato, chiede di comprendere le azioni di oggi alla luce di quelle già compiute ieri e in vista dell’agire di domani. In una tale prospettiva assumono particolare rilevanza la cura di sé, la formazione del carattere e l’accettazione della fragilità, nonché dei limiti della condizione umana. E a settant’anni la vita può risultare riuscita e proprio per questo meritare ancora di essere vissuta.
Francesca Marin è docente a contratto di Filosofia morale presso il Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università degli studi di Padova.