Mafia e terrorismo: il «carcere duro» a giudizio
Bruxelles e Roma tornano a sfidare il «41 bis», articolo della legge 354/75 che disciplina l’ordinamento penitenziario.
Introdotto per reati di mafia nel 1992, poi integrato con altri profili (terrorismo, induzione di minori alla prostituzione e pornografia, riduzione in schiavitù, traffico di stupefacenti), esso configura il regime di «carcere duro».
La misura, temporanea, è stata via via prorogata per l’efficacia constatata dai magistrati nella lotta alla mafia, riducendo i contatti del reo con il mondo di provenienza. Sotto la lente delle recenti sentenze è finito soprattutto il collegato articolo 4 bis.
Che cosa prevedono gli articoli 41 bis e 4 bis
Il 41 bis prevede una carcerazione restrittiva quanto a ora d’aria (due ore sole e senza contatti con altri gruppi), colloqui (uno al mese con vetro separatore), sorveglianza costante (da parte di personale che non abbia rapporti con il resto del corpo di guardia), divieto di detenere libri e giornali, contatti con i rappresentanti dei detenuti.
Il 4 bis sospende benefici, permessi e lavoro all’esterno per i detenuti mafiosi che non collaborino con la giustizia, su indicazione delle procure antimafia, determinando così la fattispecie dell’ergastolo ostativo, il «fine pena mai».
Argomenti contro e a favore
Più volte la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte costituzionale vi hanno ravvisato trattamenti degradanti e inumani (art. 3 della Convenzione sui diritti umani) e incoerenti rispetto alla finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione).
Tra gli argomenti critici prevalenti nel dibattito civile, uno è sociologico, rilevando come la scelta di non collaborare con la giustizia possa essere anche condizionata dal timore di vendette sulla famiglia. Un altro argomento è pedagogico, e individua nelle possibilità di istruzione, socializzazione e lavoro uno strumento per distanziare l’immaginario morale e culturale del reo dalla vita criminosa. Infine vi è un argomento morale, che identifica nello stato un soggetto il cui agire non può scendere sotto la soglia del rispetto della dignità delle persone.
La società civile si schiera per lo più a favore del carcere duro, come testimoniano le reazioni di associazioni delle vittime e cittadini comuni: l’immagine del mafioso che ha sciolto nell’acido le vittime, in permesso premio, viene elaborata in termini di sconfitta del comune senso di giustizia.
I magistrati, dal canto loro, rilevano l’efficacia delle misure restrittive nell’indurre alla collaborazione e recidere i legami pericolosi, oltre al rischio delle pressioni che, a legge modificata, il magistrato di sorveglianza finirà per subire dalle cosche nel decidere benefici e permessi
Sul piano politico e legislativo si salvaguarda una soglia minima sottolineando la temporaneità della misura, in modo da non consentire l’identificazione di stato e violenza tout-court; la resistenza a modifiche intende anche smarcare la politica da legami pregiudicati con il mondo delle cosche, specie sullo sfondo non ancora del tutto chiarito della «trattativa stato-mafia» (il superamento del 41 bis era nel «papello» delle richieste mafiose allo stato).
Prospettive
La questione dell’umanità del trattamento anche di soggetti pericolosi resta però giuridicamente sensibile e moralmente decisiva, richiedendo coraggio, discernimento ma anche investimenti pubblici adeguati.
Da una parte sono da sostenere gli sforzi dell’associazionismo civile nel creare una cultura la quale, in modo più autentico e preventivo, scardini quell’immaginario che nel generale sentimento anti-stato affianca successo e ricchezza facili ai più tradizionali codici di sangue onore e fede (il duro appello alla conversione di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi è quanto mai attuale).
Dall’altra parte c’è un’opinione pubblica – non solo nel nostro paese – ancora da sensibilizzare rispetto al principio rieducativo e ancor meglio reintegrativo della pena; le sentenze accennano alla necessità di una speranza, che fa eco alla “forza liberatrice dell’amore” di cui parlava ancora Giovanni Paolo II al Giubileo delle carceri nel 2000.
Il successo delle misure alternative diventa allora decisivo per il cambiamento di prospettiva, e dipende necessariamente anche da un più serio investimento su figure educative e sorveglianza dinamica interne ed esterne, collegialità dei tribunali di sorveglianza e percorsi protetti di reintegrazione.
Pier Paolo Simonini insegna Etica ecologica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – Sezione parallela di Torino.