Lo Spirito e le nostre tentazioni
Il “credere nello Spirito Santo” – che professiamo abitualmente durante le celebrazioni liturgiche e che la Pentecoste, appena commemorata, ci ha riproposto con forza – non si risolve in un semplice credere nella sua esistenza.
“Credere nello Spirito Santo” significa più radicalmente ospitarne la presenza e camminare sulla via della Rivelazione, perché “anche se la Rivelazione è compiuta, essa non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli” (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 66).
La riflessione teologico-morale fa parte di questo cammino. In questo cammino da compiersi alla presenza dello Spirito, mi sembra possano intrufolarsi alcune tentazioni:
– la prima consiste nel basarsi, nella riflessione e nell’argomentazione, esclusivamente sulla ratio (dando così – magari in buona fede –un’accentuazione troppo radicale alla Rivelazione naturale, dimenticando la Rivelazione biblica), magari supportata dall’esperienza e da una sensibilità umana. Tale tentazione giunge a considerare lo Spirito come un accessorio superfluo;
– la seconda tentazione tende a esaltare l’impegno umano ai fini dell’assunzione di atteggiamenti o decisioni circa gli atti da compiersi… marginalizzando, di fatto, il ruolo dello Spirito nella coscienza (credente o meno). Tale “tentazione”, che può essere definita neopelagianesimo, è forse più diffusa sia a livello pratico sia a livello teoretico;
– la terza tentazione, al contrario, riferisce l’azione morale completamente allo Spirito, prescindendo dall’autonomia del soggetto agente. In tale “tentazione carismatica” spesso lo Spirito viene inteso come troppo sovrapponibile (o addirittura identificato) con la sensazione, l’emozione, e sembra quasi non toccare gli aspetti intellettuali.
Lo Spirito non è né un estraneo, né solo oggetto di invocazione, ma co-soggetto di animazione nella riflessione e nella prassi morale del singolo credente e della comunità ecclesiale. Nella vita morale del credente, nell’elaborazione e nella prassi, lo Spirito di Dio e lo spirito del soggetto sono intimamente uniti: non si devono introdurre indebite concorrenze, quanto favorirne la collaborazione.
Tuttavia non dobbiamo sminuire o dimenticare l’azione silenziosa e anonima dello Spirito che opera anche nell’impegno di quella sincera ricerca del bene e del giusto, dell’umano, anche da parte di chi non professa esplicitamente la propria fede nel Dio unitrino. La lezione di Rahner (il riferimento è chiaramente alla sua elaborazione del concetto di “cristianesimo anonimo”) ci aiuta a evitare il rischio di squalificare la posizione morale di chi non abita lo spazio della fede.
Una teologia morale nello Spirito è (dovrebbe essere), pertanto, una morale di ampio respiro (“lo spirito soffia dove vuole” – Gv 3,8), che non annulla la norma, ma ne dilata il senso; che sa cogliere i “segni dei tempi”, ma non si ripiega su di essi; che si manifesta nel quotidiano, ma si inserisce in un orizzonte escatologico; che non si autocompiace nei propri confini ma sa collaborare con tutti gli “uomini di buona volontà”, senza dimenticare la propria identità.