m
Moralia Blog

Lettera dagli USA: sollievo, rabbia e divisione

A poche settimane dalle elezioni americane, sembra possibile guardare ai risultati del voto con la calma necessaria a una riflessione pacata. Ne offro qui una versione personale, e lo faccio con la vicinanza critica del cittadino responsabile, italiano di origine, ma in America da quasi trent’anni.

Sebbene l’annuncio della vittoria di Biden risalga al 7 novembre, il voto rimane ufficialmente contestato e la bufera è tuttora in corso: quella suscitata dalle dichiarazioni inquietanti e irresponsabili del presidente uscente, Donald Trump, per cominciare. Affermazioni a sua volta supportate, pochi giorni dopo, dal capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, e dal segretario di stato Mike Pompeo.

C’è poi, con qualche eccezione coraggiosa, il silenzio increscioso e pavido della leadership repubblicana, che per motivi strategici fa il gioco dello struzzo, e rifiuta di dire chiaramente da che parte sta.

Un paese lacerato, mentre la pandemia dilaga

Di fatto, però, la coppia Biden-Harris si è assicurata sia il voto uninominale (l’electoral vote), necessario a sancire la vittoria, sia quello popolare (il popular vote), sempre importante, almeno dal punto di vista statistico, a sondare il polso della base votante. Un conteggio definitivo dei voti, visto il processo ancora in corso in alcuni stati chiave, arriverà tra qualche settimana.

Poi ci sarà con tutta probabilità la fase critica della verifica legale, a seguito delle pretenziose quanto infondate querele inscenate dall’amministrazione Trump. Il rimando alle corti, potenzialmente aperto fino al ricorso più alto della Corte suprema, comporterà un ritardo nella dichiarazione ufficiale del risultato, ma non potrà cambiarne la sostanza.

La vittoria è inequivocabilmente di Joe Biden. Ma la base trumpiana è in agitazione, e il paese in uno stato di profonda lacerazione. Mai come oggi si vive un senso d’incertezza, unito a una vera e propria paura circa il futuro. Il continuo dilagare della pandemia, con più di 11 milioni di infettati e 250.000 morti, getta poi sul panorama politico un’ombra di angosciosa precarietà.

Con il suo voto la maggioranza del paese ha chiesto un cambio di rotta. E tuttavia, nonostante il passato illustre da vice-presidente e senatore, un passato che l’ha visto protagonista di importanti proposte legislative, Joe Biden non è un candidato forte. L’entusiasmo per la sua elezione sembra andare infatti più alla vicepresidente Kamala Harris che a lui.  Harris interpreta la speranza delle minoranze e delle donne. Biden, da parte sua, rimane un prodotto della «macchina democratica», segnata da intrighi burocratici e dalla disponibilità fin troppo vistosa, emersa già quattro anni fa con la candidatura di Hillary Clinton, al compromesso politico.

Un programma sociale

Certo le ragioni del successo democratico sono anche da attribuire al programma politico di Biden: il sostegno per la riforma sanitaria iniziata da Obama (il cosiddetto Obama care) e la promessa di un diverso impegno nell’affrontare la pandemia, per cominciare; e poi l’appoggio a un programma di apertura sociale, che difende tra gli altri il diritto all’aborto, il matrimonio omosessuale, la cura dell’ambiente, una diversa politica immigratoria, gli interessi economici della classe media attraverso una politica fiscale di tassazione meno favorevole alle grandi compagnie e ai monopoli finanziari.

E sul piano della politica internazionale: un superamento del programma di isolamento e di difesa provincialista degli interessi americani, inaugurato dal grido trumpiano America first!

La vittoria di Biden rappresenta prima di tutto un voto di sfiducia nei confronti della presidenza Trump, un’espressione della frustrazione ormai giunta a livelli di insopportabile esasperazione nella maggioranza degli americani. Si è votato Biden per sbarazzarsi finalmente di Trump, al prezzo, altissimo, della spaccatura del paese. Rimane da chiedersi perché Trump mantenga un alto grado di appoggio nella popolazione, avendo ricevuto, dopo tutto, quasi 74 milioni di voti.

Venne al potere, quattro anni fa, grazie al voto della destra, l’appoggio delle Chiese cristiane fondamentaliste e la fiducia datagli dai cattolici conservatori che, sotto la spinta di buona parte dell’episcopato americano, credettero al suo programma prolife, un vero e proprio specchietto per le allodole, essendo lui un candidato noto per l’inveterata misoginia e la scurrile volgarità. Come si disse: «Trump non è prolife. È semplicemente contro le donne». Eppure le donne, soprattutto nel ceto medio bianco, lo votarono in massa!

Il trumpismo non è morto

Dopo una presidenza tempestosa e altamente singolare, il programma che aveva portato Trump alla presidenza riscuote ancora un forte potere di attrazione, nonostante il suo sia un populismo estremamente pericoloso: Trump sa aizzare la folla nelle piazze e getta olio sul fuoco già fin troppo ardente nella delusione dei vinti.

Con la sua retorica incontrollata alimenta il sentimento di sfiducia nei confronti del processo democratico che l’ha voluto perdente, tenendo vivo il dubbio della frode elettorale e addebitando ai media e alle loro supposte fake news la dichiarazione della vittoria Biden. Quasi che la maggioranza degli elettori non conti: stando a Trump, Biden avrebbe vinto perché le grandi emittenti televisive, da CNN a MSNBC, lo hanno dichiarato presidente in anticipo sul conteggio finale!

Nonostante il risultato delle elezioni e l’inevitabile uscita di scena, Trump e il suo programma politico (la cosiddetta Trump’s legacy) rimarranno vivi per molti anni a venire.

E questo perché di fatto la presidenza uscente ha cambiato il volto dell’America e degli americani. Per cominciare Trump ha contribuito a esasperare un sentimento nazionalistico di supremazia sul resto del mondo, e al tempo stesso di indifferenza per ciò che succede oltre l’America.

America first significa che l’America può fare da sola, badando, prima di tutto, ai propri interessi. La logica della dialettica vuole che il senso dell’identità si definisca attraverso l’incentivazione della differenza. Da qui il sostegno per una politica immigratoria forte, persino spietata, che è giunta ad allargare indiscriminatamente il sospetto nei confronti dei rifugiati islamici e a separare le famiglie provenienti dal sud messicano, lasciando figli piccoli allo sbando nei centri di detenzione di frontiera.

L’immigrato è il nemico da cui difendersi. Ma nemici sono anche «tutti gli altri»: America first significa denuncia di ogni collaborazione internazionale, persino con le potenze tradizionalmente alleate, come quelle europee, perché la pazienza diplomatica e la fatica della mediazione dialogica conducono a lungo andare alla perdita degli interessi americani.

Perciò, secondo Trump, ogni collaborazione internazionale maschera un atteggiamento rinunciatario e patetico, uno sorta di deroga nei confronti di quel particolarismo tutto Americano (il cosiddetto American exceptionalism) che rifiuta di stare ai criteri definiti per tutti, e rivendica per sé il diritto di fare altrimenti.

Gli effetti della presidenza Trump

Ciò spiega una serie di decisioni prese dall’amministrazione Trump: il rigetto degli accordi di Parigi sull’ambiente, come anche dei patti, faticosamente raggiunti dall’amministrazione Obama, con l’Iran sulla regolazione della produzione nucleare; l’atteggiamento critico nei confronti della NATO; l’uscita dall’Organizzazione mondiale della salute; e infine l’imposizione di forti tariffe doganali sui mercati asiatici ed europei in nome della difesa dei prodotti nazionali e del lavoro per gli americani.

Ragioni, queste, che se hanno funzionato come stratagemma populistico durante la campagna elettorale del 2016 hanno avuto in realtà ben altro effetto: l’attitudine protezionistica ha incentivato l’economia sotto certi aspetti, ma lo ha fatto a beneficio della minoranza capitalista. Le statistiche parlano chiaro: l’1% delle famiglie più agiate negli Stati Uniti controlla il 40% della ricchezza, mentre al 90% delle famiglie più basse rimane meno di un quarto del patrimonio nazionale.

L’economia di Trump ha indubbiamente accresciuto il divario già enorme tra ricchi e poveri. Agli ultimi rimangono le proverbiali briciole di un trickle down effect sempre meno credibile. L’incremento del prodotto interno lordo, come anche la crescita dei mercati finanziari, ha accresciuto in maniera sproporzionata il benessere della classe industriale, lasciando a bocca asciutta tutti gli altri: la classe media, che va assottigliandosi decisamente, e la massa crescente di quanti entrano ufficialmente nella fascia povera. La ripresa economica rimane incerta, e la recessione è senza alcun dubbio una realtà.

Le ragioni di un successo

Ma il danno peggiore di Trump va al di là delle scelte economiche: egli ha contribuito allo sgretolamento della democrazia rappresentativa, sostituendovi una sorta di populismo di piazza e di parossismo movimentistico che tende a far saltare qualsiasi mediazione istituzionale in nome di una ambigua democrazia diretta.

Così tutte le espressioni di un sistema democratico che funziona diventano sospette quando non servono a esaltare il protagonismo trumpiano: la libertà di stampa viene indiziata di partigiana tendenziosità quando si fa critica; il faticoso lavoro di mediazione legislativa nel Congresso viene definito inerte quando rifiuta di avvallare le policies presidenziali; le istituzioni diplomatiche, le forze armate, gli apparati di sicurezza nazionali vengono sottoposti al pubblico ludibrio quando esprimono una visione delle cose diversa da quella voluta da Trump.

Persino la sfera giudiziaria, quella delle Corti, finisce per essere manipolata a fini politici: la candidatura di Amy Barrett a giudice della Corte suprema, a pochi giorni dalle elezioni, rispondeva al tentativo maldestro, perché costituzionalmente inaccettabile, di assicurarsi un voto in più nel proposito di smantellare definitivamente il progetto di riforma sanitaria avallato da Obama.

Trump pensa di poter manipolare tutto e tutti. Come un CEO despota licenza i suoi collaboratori e i funzionari del suo governo con una frequenza imbarazzante, dando l’impressione che la loro idoneità a servire il paese dipenda semplicemente dalla sua approvazione capricciosa e lunatica.

Così facendo contribuisce alla sua definizione di politico alternativo, fuori schema, flessibile, ma proprio per questo paradossalmente aperto alla volontà del popolo. Così molti lo seguono, molti continueranno a seguirlo, lui o uno dei suoi successori, forse qualcuno dei suoi figli.

Strada in salita per Biden

Con un tale grado di opposizione, il nuovo presidente Biden non avrà vita facile.  Ci si aspetta da lui l’opposto di quanto Trump ha voluto: una leadership prudente piuttosto che sfacciata, soprattutto a livello internazionale; una rinnovata fiducia nelle istituzioni e un rispetto per l’autonomia delle pratiche democratiche; un’attitudine di deciso confronto con le piaghe endemiche del paese, quali il razzismo, la povertà e l’emarginazione degli immigrati; una politica sanitaria segnata dalla cura piuttosto che dal cinismo, con l’espansione del cosiddetto Obama Care e la risoluzione del problema gravissimo che ancora affligge una parte consistente della popolazione(almeno 30 milioni), e cioè la mancanza di protezione sanitaria.

Ci si aspetta da Biden una capacità di mediazione politica basata sulla ricerca dell’unità vera del paese, più che sulla disponibilità al compromesso. Biden è un uomo di fede, il primo presidente cattolico dopo J.F. Kennedy.

Avrà bisogno di un’ispirazione profonda e di enorme fiducia nel sistema democratico per cominciare il suo mandato, come anche di tanto coraggio per navigare una situazione sociale difficilissima, in cui la tensione e la rabbia sono forse più forti della speranza per il nuovo a venire.

 

Roberto Dell’Oro vive con la famiglia a Los Angeles e insegna alla Loyola Marymount University. Dirige l’Istituto di bioetica e insegna Etica filosofica e teologica nella Facoltà di studi teologici della stessa università.

Tag Politica

Commenti

  • 02/12/2020 Lettera firmata

    Non ritengo veritiero quanto sopra riportato. Il trumpismo ha portato benessere e occupazione e ha fermato l’invasione cinese. Biden, che approva l’aborto, desertificherà gli USA e aprirà la strada a cinesi e nord-coreani e soprattutto all’Iran che scatenerà una guerra a Israele e porterà a termine il suo programma nucleare. Chi vivrà vedrà.

  • 02/12/2020 Gerolamo Fazzini

    Analisi molto puntuale, che va al di là della cronaca e offre chiavi di lettura interessanti. Grazie!

Lascia un commento

{{resultMessage}}