L’etica teologica tra i banchi delle scuole filosofiche antiche
L’intuizione degli stoici secondo cui ci vogliono strumenti propri per un confronto serio e argomentato su ciò che è moralmente giusto fare o evitare fa del dominio della morale il dominio dell’argomentazione.
Io vi domando: se ci fossero due uomini di cui uno fosse un perfetto galantuomo e di una scrupolosa equità, di una singolare fede e l’altro invece una matricolata e audacissima canaglia, e se tutto il popolo si fosse pervertito al punto da considerare galantuomo la canaglia, come un fiore d’onestà e di fede e, agendo in conseguenza, l’uomo buono fosse perseguitato e imprigionato dai concittadini, e gli si tagliassero le mani, gli si strappassero gli occhi e lo si condannasse e lo si legasse e lo si torturasse e lo si lasciasse morir di fame e sembrasse agli occhi di tutti giustamente punito da tante miserie, mentre, dal lato opposto, la canaglia fosse lodata e onorata e corteggiata e che tutti le recassero a gara onori e comandi e ricchezze e ogni ben di Dio, come se fosse l’uomo più degno di stima e di fortuna che mai si fosse visto su questa terra, chi, ditemi voi, chi sarebbe così pazzo da esitare un minuto nello scegliere tra la sorte dell’uno e la sorte dell’altro? (Cicerone, De republica III, 17)
Un’antica diatriba filosofica...
È Filo che parla, dopo che Lelio ha perorato la causa di quella cosa che gli uomini appellano col nome di giustizia. E lo fa riprendendo gli argomenti di Carneade, il famoso scolarca degli Accademici, nemici giurati degli Stoici, i quali avevano tentato una conciliazione tra un adattamento istintuale di cui gli esseri umani sono dotati per natura e la razionalità etica che annoverano anch’essa come dote di natura. Un rompicapo e anche una ghiotta possibilità per le raffinatezze dialettiche degli avversari.
Da qui l’acerrima discussione che anima le scuole filosofiche contrapposte, una (la Stoà) che afferma l’esistenza del bene senza confonderlo con i beni, e l’altra (l’Accademia) che nega l’esistenza del bene perché non lo distinguono dai beni. Gli uni (gli accademici) accusano gli altri (gli stoici) di vizio di circolarità, gli altri (gli stoici) insistono sull’accordo con la natura ma in termini di ragione e non d’istinto, rintuzzando l’accusa mossa dagli altri (gli accademici).
Allora sempre Carneade – come riporta e ricostruisce Cicerone – nell’opporre giustizia e saggezza, coglie in quest’ultima l’impulso naturale del «privilegio di sé» e nella prima l’innaturalità del «privilegio dell’altro», e lo fa con un esempio: nel contesto di un naufragio un uomo giusto si accorge che un naufrago è aggrappato a un relitto. Sa che non dovrebbe sottrarglielo se vuole rimanere giusto, tuttavia sa di essere più forte di lui. E che se seguisse la giustizia morirebbe. Saggezza vuole allora che lui si appropri dell’appiglio, ragionando saggiamente abbandonando la giustizia.
Con ciò Carneade vuole mostrare che ordine naturale (impetus) non è la razionalità etica, quindi se si segue la natura si è saggi anche se non giusti, concludendo che la giustizia è qualcosa estranea al mondo perché non è secondo natura.
...al servizio di una nuova didattica teologico-morale
Filo, Lelio, Carneade... sono personaggi-profili che testimoniano il clima incandescente tra le scuole filosofiche, e che oggi potrebbero tornare utili come figure-veicoli per una didattica della teologia morale il cui abbrivio dev’essere sempre nella forma di una domanda capitale: se l’interesse per se stessi è quanto c’è di più immediato e caratterizzante la natura di noi, la giustizia che sembra possedere un altro profilo identitario dove ha il suo fondamento?
Platone nel Teeteto aveva affermato qualche secolo prima che questo fondamento risiede nella sua fuga da questo mondo. Ecco come la filosofia morale si apre alla teologia morale e, contemporaneamente, come la teologia morale deve servirsi sempre dell’esperienza morale (anche rifiutata, negata, mistificata, osteggiata) se vuole rendersi fruibile.
Ai teologi morali il compito di tradurre il disaccordo del tempo delle scuole filosofiche antiche con interrogativi come questi: i giudizi morali possono essere realmente veri? È una domanda di fondazione ineludibile se vogliamo difendere non solo una teoria di etica fondamentale ed etico-teologico fondamentale, ma anche – ed è ancor più interessante e attuale oggi – se vogliamo difendere una teoria della giustizia a fondamento della politica.
Ed è in questo addentellato con le questioni politico-sociali che la teologia morale fondamentale risulta saldamente legata a una teologia morale sociale. Si può essere all’altezza delle nostre responsabilità di cittadini (tra questi ci sono i governanti) se non supponiamo che i principi sulla base dei quali agiamo siano oggettivamente veri? È un abbaglio cercare di fare a meno di una teoria dell’oggettività morale. E che ciò sia vero non sta nel fatto che dico che ciò sia vero, ma nel fatto che ciò è sempre una questione di argomentazione morale.
L’intuizione degli stoici secondo cui ci vogliono strumenti propri per un confronto serio e argomentato su ciò che è moralmente giusto fare o evitare (le cose – per quanto beni siano – non sono il bene a cui essi si riferiscono, nonostante il bene non si riferisca a nessuno di essi) contro le convinzioni degli Accademici fa del dominio della morale il dominio dell’argomentazione.
Si argomenta la complessa relazione tra i beni (la natura) e il bene (la giustizia), perché l’etica non caschi nella convinzione di avere bisogno di un presidio altro rispetto a se stessa. Di nessun atteggiamento colonialista di matrice filosofica (il bene è la natura, il bene è fuori dalla natura, ecc...) né tanto meno teologica (il bene è Dio) ha bisogno l’etica, perché ogni teoria su una teoria morale è già essa stessa un giudizio morale su cosa è morale.
Il più delle volte invece da teologi siamo tentati di imboccare la scorciatoia dei discorsi religiosi che vanno subito al traguardo, che di fatto è un punto di partenza fuori discussione: c’è Dio a garanzia della giustizia! Una petitio principii di incalcolabile miopia.
Per un’inversione di rotta
Che ci sia Dio non è un’evidenza quanto lo è, invece, il fatto che il più delle volte non vogliamo essere d’accordo con il mondo così com’è (la natura): è invece la giustizia che genera (nella mente) «Colui senza il quale niente sarebbe», compresa la giustizia (nella realtà).
Tutta la didattica della teologia morale prenderebbe forse tutta un’altra strada.
Pietro Cognato insegna Teologia morale e bioetica presso la Facoltà teologica di Sicilia e l’Istituto di studi bioetici S. Privitera. Tra le sue opere Fede e morale tra tradizione e innovazione. Il rinnovamento della teologia morale (2012); Etica teologica. Persone e problemi morali nella cultura contemporanea (2015). Morale autonoma in contesto cristiano (2021). Ha curato inoltre diverse voci del Nuovo dizionario di teologia morale (2019).