L’etica non ha etichette
«Ci possono essere uomini che per qualche ragione si sono abituati a dubitare che ci sia il bene in senso autentico. … Ma se poi essi si trovano davanti all’evidenza di un’azione disinteressata, che forse un amico ha compiuto per essi, e sanno d’altra parte, dalla propria intima esperienza, che esiste questo nudo superamento di sé per amore del puro bene, che esiste come possibilità e offerta, allora per un attimo tutta la loro teoria è come dimenticata e si piegano davanti alla semplice fattualità del bene».
Questa bella citazione, tratta dalla terza anta della trilogia di Hans Urs von Balthasar, ci sembra fantasticamente adatta per porre a stella polare di ogni sistema etico quell’evidenza originaria e concreta del «bene» in senso autentico, che costituisce la matrice o la fucina di ogni pensiero che si vuole offrire come sistema per rifletterci su.
Sì! Perché ogni sistema può essere un’«etichetta», eccetto l’etica che il medesimo sistema pretende di supportare, veicolare, spiegare, sdoganare. Di fronte a questo inizio, per il quale esiste un sistema filosofico (e/o teologico) di etica, il linguaggio si fa casa alla meno peggio.
Del linguaggio «negativo» dell’etica
«Ama il prossimo tuo come te stesso›› (Lv 19,18); ‹‹Non fare agli altri ciò che non desideri sia fatto a te stesso›› (Mt 7,12; Lc 6,31); ‹‹Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come legge universale per tutti gli esseri razionali›› (Kant); ‹‹Non vorrei né patirla né commetterla, ma, tra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia›› (Platone).
Queste proposizioni sono la casa dell’etica, e la loro caratteristica è quella di essere pretenziose: la pretesa consiste nel voler fondare ma nel non essere fondate. Esse rimangono confinate nell’ambito della pura negatività, direbbe Hannah Arendt, cioè tutte, pur non dicendo nulla di concreto, dicono tuttavia tutto il concreto dell’elementare esperienza morale consistente nella qualità dell’io come esperienza originaria in termini di responsabilità di sé stessi.
Rischi e resistenza
Nonostante le caratteristiche di evidenza, irriducibilità, originarietà e originalità di questo fenomeno (qualcuno molto argutamente lo ha apostrofato come preoccupazione), non si è mai immunizzati dal dubbio che non sia proprio così e che, perciò, gli uomini cavillerebbero con mille argomenti, lasciandosi praticamente aggredire dall’idea secondo cui non esisterebbe l’etica prima delle etichette.
Il rischio è grande, ma la resistenza deve essere energica, se non vogliamo che l’etica diventi semplicemente una questione di etichetta. L’eticista (colui che dovrebbe occuparsi di questa preoccupazione) deve sempre farsi pungolare da questo fenomeno morale. E come?
Solo un’antropologia a partire dalle «forme pratiche» dell’esperienza umana, come il trovarsi a essere destinatari di un’azione disinteressata degli altri oppure come lo sperimentarsi attori di questa offerta di sé senza interesse, convenienza, contraccambio, può, nonostante rimanga indimostrabile che ciò sia il bene, «smascherare» tutte le etichette, che ne hanno negato solo la possibilità come offerta gratuita ricevuta oppure realizzata.
Esse – le etichette – possono essere mantenute e sostenute, ma sempre come titoli che hanno bisogno di essere integrati, esplicitati, chiariti.
Per una conclusione di ripartenza
Se gli uomini, che hanno esperito qualcosa di originario e semplice, rimarranno in ascolto, saranno sempre capaci di «ri-conoscere» le etichette dall’etica, che in ultima analisi cerca sempre di spiegare il bene non con un altro fenomeno.