Lavorare da morire
2,6 ogni 100.000 lavoratori in un anno, circa 3,5 al giorno: sono i numeri – asettici e drammatici – dei morti per infortunio sul lavoro nel nostro paese.
Numeri che hanno un volto: quello del personale sanitario sacrificato durante l’anno del coronavirus (in cui la media è salita a 4,2 decessi al giorno); dei rider misurati algoritmicamente in velocità, distanze percorse e numero di consegne; dei lavoratori della logistica e dei trasporti su strada, degli operai in cantiere e in fabbrica, dove il mordente delle norme di sicurezza decresce al crescere dei livelli di subappalto ed esternalizzazione; dell’invisibile stagionale morto di infarto in una serra ad agosto.
Alla stagione delle fabbriche dense di fumi, avide di tempo e speranze di vita, e a quella delle morti differite da veleni industriali, è subentrata quella delle morti per incuria, sottovalutazione, accelerazione, frammentazione dei processi. Tratti comuni sullo sfondo sono la de-relazione nei processi produttivi e, ancora sempre, la massimizzazione dei profitti a ogni costo, benché in un quadro di buone leggi e sindacati attenti.
Morti bianche?
Una morte che non ti aspetti, e quasi inavvertita. Non baci i figli uscendo al mattino come chi non torna più. Se denunci un pericolo il ricatto (ancor oggi!), una delle forme più detestabili del prevalere del capitale sulla forza lavoro, ti induce a tacere.
L’autobiografia del lavoratore in cantiere subappaltante non diventa un best-seller sugli scaffali. Sul giubbino fluo del rider investito la repubblica del fast food non appunterà una medaglia al merito.
Le chiamiamo «bianche», queste morti: nessun assassino seriale, per una strage continua. Lo sono davvero? Non hanno forse i colori di differenti responsabilità, da chi dovrebbe organizzare e tutelare il lavoro altrui, fino al consumatore, colpevolmente ignaro dei costi di ciò che consuma?
Lo sfruttamento in nero del lavoro di persone ricattabili, non formate e spesso ignoranti delle più elementari norme di tutela, l’autoriduzione fiscale, il fattore tempo così decisivo nella massimizzazione dei profitti, i mancati investimenti in controllo e sicurezza, la trascuratezza del consumatore rispetto a ciò che sta dietro e dentro al prodotto, costituiscono strutture perverse su cui intervenire anche culturalmente.
Povertà culturale: ricentrare il focus
D’altra parte uno scarso rispetto di sé, la sottovalutazione del rischio, la sudditanza a input che impongono riduzioni di standard, sono forze oscure che investono spesso le vittime stesse, condannate a un’incuria di sé che non deve trasformarsi in alibi per chi ha responsabilità e per la società intera.
Nessun «se l’è cercata», dal momento che la povertà culturale dell’incoscienza dei rischi è, pur sempre, un fenomeno sociale che esige risposte concrete: in termini di crescita nella consapevolezza di sé e dei propri diritti, del valore del lavoro per la vita propria e degli altri, della relazione essenziale tra energetica delle fatica, giustizia retributiva ed estetica dell’esistenza.
Il decentramento del focus dal lavoro produttivo al consumo di merci mette ancora una volta in ombra il senso stesso del lavoro: la realizzazione dignitosa di sé, la soddisfazione rispetto al prodotto, l’integrazione in un tessuto sociale in cui assumere un peso consapevole e riconosciuto nella crescita del benessere comune.
Prevalgono disintegrazione sociale (provare a far due parole con un rider o un corriere), ricatti per sopravvivere («se vuoi mangiare questo è...») e riduzione ad attività strumentale, che finalizza il lavoro al consumo di tempo «libero» (libero di consumare).
Lavoro buono, integrante, sostenibile, che crei relazione: a meno di questo, nessuno sarà mai davvero libero di esprimere se stesso, né un popolo potrà mai dirsi veramente tale (Fratelli tutti, n. 162).
Pier Paolo Simonini insegna Etica ecologica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – Sezione parallela di Torino.