La temperanza nella società degli eccessi
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La persona ideale oggi? Elegante, affascinante, conturbante, frizzante e spumeggiante… Temperante? No, grazie!
Nel mondo dei selfie e dei like, dove la parola d’ordine è «eccesso», la temperanza non va certamente a braccetto con il desiderio di vivere una «vita spericolata». Sembra proprio che tra le virtù umane quella della temperanza oggi non abbia tanto spazio.
La virtù greca della σωφροσύνη (sophrosyne), cioè la pratica della moderazione, nel mondo classico era indicata con il termine mediocritas, che stava a indicare il «giusto mezzo», senso che è andato perso nel termine italiano «mediocrità».
Quindi nell’odierna società degli eccessi, dello sballo, dell’apprezzamento di una vita adrenalinica e senza limiti, come può avere valore ciò che è indice di moderazione e sobrietà? Ma la temperanza è ordinata all’uomo stesso, perché significa dirigere lo sguardo prima di tutto su sé stessi e la propria condizione.
Essa aiuta a porre degli argini alle passioni, e questo non per annullarle, bensì perché non giungano a scompaginare e a destrutturare la persona. Bisognerebbe perciò far riscoprire la bellezza di questa virtù in special modo ai più giovani, ai quali essa può erroneamente apparire esclusivamente un insieme di divieti e privazioni.
A molte persone l’idea di rigore interiore comunica irritazione, fastidio, in quanto negazione e repressione di ciò che sembra promettere soddisfazione, piacere, felicità.
Alla ricerca di una virtù simpatica
In questa prospettiva, la temperanza non può apparire una virtù simpatica, e quindi sembra da rifiutare in nome della gioiosità della vita. La temperanza, però, non ha nulla di triste, di malinconico, di grigio.
Ben lungi dall’essere la «minore» delle quattro virtù cardinali, la temperanza è, in un certo senso, quella che riguarda l’essere umano più da vicino: le altre – prudenza, giustizia, fortezza – riguardano infatti la relazione dell’anima con l’altro; essa invece riguarda l’anima in se stessa, riguarda l’uomo in se stesso, nella sua struttura ontologica e nel suo divenire persona.
La temperanza, come qualunque virtù, è essenzialmente affermativa. Essa rende la persona capace di essere padrona di sé, mette ordine nella sensibilità e nell’affettività, nelle tendenze più intime dell’io.
Una vita riuscita e gioiosa è una vita in cui si esercita la virtù della temperanza, ossia la capacità di discriminare e di separare ciò che è vero da ciò che è falso nella ricerca del bene.
La temperanza ha il compito di guidare la persona umana a sviluppare tutta intera la sua vita in modo armonioso, senza urti; aiuta a vivere in modo più autentico il rapporto con le cose materiali, rendendo sempre più aperti ai valori dello spirito e perciò avvicinando sempre di più a Dio e al gusto di ciò che Dio è, ovvero vita, verità, bellezza, bontà.
Bisogna innanzitutto essere affascinati da grandi modelli di temperanza e, tra tutti, quello di Gesù Cristo, la cui vita, compresa la passione e la morte, è caratterizzata da equilibrio e dominio di sé. Gesù è temperante nello slancio, nella vivacità, nell’entusiasmo, nella creatività, nell’amore. In lui c’è quell’armonia che tiene insieme i desideri, gli istinti, le emozioni, per farne un organismo ben unificato.
Alla luce di questo speriamo che la temperanza, e in generale la bellezza di una vita virtuosa, torni a ricoprire un ruolo importante nella vita dei cristiani, proprio come auspicava Gianfranco Ravasi nel suo saggio sulle virtù:
«Perché proprio un libro sulle virtù, se esse sono sempre più pianticelle intisichite o figure emarginate? La risposta è in una sorta di legge della storia: quando una realtà viene a mancare, si ritorna a sentirne la nostalgia e la necessità».[1]
Clara Di Mezza è docente di religione e collabora con la Facoltà teologica di Torino; tra le sue opere La sofferenza: subire o agire? Una riflessione teologica, nel confronto con il pensiero di Max Scheler, Effatà, Torino 2015.
[1]G. Ravasi, Ritorno alle virtù, Mondadori, Milano 2005, 18.