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Moralia Blog

La tecnologia e le guerre "multistabili"

Il dibattito generato dal post sulle macchine autonome (leggi) e sul loro uso mi spinge a focalizzare nuovamente la questione della tecnologia bellica.

È interessante notare come si tenda a unire in un'unica argomentazione morale le questioni sullo status morale delle macchine autonome e l’utilizzo di tecnologie di telepresenza negli scenari di conflitto: questa fusione argomentativa mostra il grande impatto che hanno questi temi nell’opinione pubblica. Il discorso è complesso e per certi versi interconnesso, tuttavia mi preme fare alcune distinzioni per ricordare come una corretta analisi morale debba conservare alcuni criteri di argomentazione che tengano per quanto possibile chiari e distinti i diversi elementi moralmente rilevanti che possono concorrere in uno stesso ambito.

  • Una prima serie di problemi si presentano con la realizzazione di macchine autonome: qual è il loro statuto, quali standard di progettazione e utilizzo garantiscano un contesto etico di costruzione e, infine, quali condizioni, ne legittimano eticamente l’utilizzo.
  • Una seconda serie di problemi, come quelli esposti dal post di Massaro (leggi), è invece sollevata dall’utilizzo di sistemi d’arma tecnologici che separano sempre di più l’operatore dal teatro bellico. Oggi da più parti si presenta l’alterazione percettiva che crea questa distanza come “il problema” nell’utilizzo di queste tecnologie: molti pensano a un possibile occultamento (morale) della serietà delle azioni messe in atto dall’operatore mediante la tecnologia.

Mi permetto, per continuare il confronto, di problematizzare provocatoriamente la questione. Questo elemento è senz’altro possibile, tuttavia rischia di essere una prospettiva riduttiva e/o sviante.

Volendo problematizzare dovremmo chiedere: come mai solo i droni o le tecnologie di telepresenza sarebbero portatori di questo effetto, e non per esempio le mine antiuomo, i missili terra-terra, i missili aria-terra, e, senza dilungarci in liste infinite, tutte quelle armi che agiscono ugualmente a distanza?

Inoltre, se la prossima guerra fosse combattuta solo tra macchine senza nessuna vittima umana, questo non sarebbe un vantaggio?

Penso che nessuno obietterebbe a questa conclusione; qualcuno magari potrebbe recuperare, come alcuni commentatori statunitensi fanno, le valutazioni positive che si facevano nei secoli passati sull’utilizzo dei mercenari in guerra: assoldare soldati stranieri era una cosa buona perché salvava vite tra i cittadini di quella nazione.

Tuttavia penso che il vero problema da affrontare sia un altro. Le argomentazioni finora presentate suppongono che si parli di conflitti tra eserciti regolari e tra stati. Gli scenari in cui oggi sempre di più vediamo combattere però non sono scenari convenzionali. Una nazione o una coalizione controlla il teatro del conflitto – non si dovrebbe utilizzare la parola guerra per la storia etica che porta con sé – con una schiacciante superiorità tecnologica, mentre gli “ostili” sono sempre più gruppi assoggettati da una schiacciante superiorità tattica e tecnologica.

Il primo e più profondo problema nell’analizzare gli attuali scenari bellici è proprio la diversa e inedita natura dei conflitti che ci troviamo di fronte: le valutazioni sulla guerra giusta e altre valutazioni che ereditiamo dal passato sembrano non più adatte alla mutata natura dei conflitti armati. I droni e le altre tecnologie belliche possono essere valutate eticamente solo se inserite nel loro contesto di utilizzo e mai in astratto o teoreticamente. La tecnologia, come sottolinea Don Ihde, gode di una multistabilità: “significa” moralmente cose diverse nei suoi diversi usi e nei diversi contesti.

La “guerra”, fatto sociale, si presenta oggi in modo diverso e inedito rispetto al passato. Capire questa diversità è la prima necessità per offrire un’analisi degli strumenti che oggi si usano per combatterla.

Paolo Benanti

Commenti

  • 08/05/2015 pierpaolo.simonini@gmail.com
    Ho trovato molto interessante l'evolvere del dibattito sul ricorso ai droni in contesti bellici. Circa le ultime, stimolanti problematizzazioni offerte da Paolo Benanti aggiungerei che: 1) mi pare si tenda a considerare la figura dell'operatore umano su scenario di guerra in termini di una certa astrazione, come decisore lucido e razionale (o, al limite, in termini ottimisti, nella speranza che, come per il soldato Piero di De Andrè, considerazioni di ordine empatico possano sospendere un atto violento percepito come inumano); mentre va pure preso in conto il caso contrario, di possibili eccessi di violenza imputabili a vendetta, odio ideologico o razziale, stress o stati d'animo particolari cui invece la macchina non va soggetta. 2) Certamente le macchine e in generale le strategie belliche vanno comprese a partire dal mutato contesto della guerra contemporanea, ma tenendo presente come siano esse stesse a incidere in modo talora significativo sulla qualità del contesto medesimo; la questione sembra quindi riproporre il nodo della reciproca implicazione tra soggetto e tecnica nel ricercare il significato dell'esperienza umana (si pensi all'inattualità del principio di combattimento leale del tradizionale ius in bello). 3) Molto suggestivo infine è lo scenario in cui lo scontro venga affidato totalmente alle macchine, moderna e umanizzante versione dei mercenari di un tempo e in sintonia con quelle strategie sociali di trasformazione del conflitto in chiave ludica che, su diversa scala, gli uomini hanno storicamente tentato di elaborare: c'è da chiedersi se tale sublimazione potrà mai pensarsi in termini compiuti e su di uno scenario planetario, che ad oggi appare privo di una governance credibile; di certo la prospettiva offre all'immaginazione uno spazio fecondo per un annuncio che non pretenda di annullare il conflitto che è nel cuore dell'uomo (e nelle sue aspirazioni sociali) ma che miri a disinnescarne la violenza distruttiva, a partire dal riconoscimento incondizionato dell'altro.

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