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Moralia Blog

La moralità. Imparare a sostare davanti al bivio

«Potessero le parole essere chiaramente interpretate, si arriverebbe presto alla soluzione […] Necessario non è disputare e nemmeno dimostrare, ma soltanto definire». Quanto sono illuminanti queste parole del card. Newman! Soprattutto se ciò di cui si vuol parlare è quel «mare magnum semantico» che si intende denotare con parole come morale e moralità, etica ed eticità.

Ogni tema, ogni questione che sembri meritare queste paroline presuppone un problema incipiente: la capacità camaleontica dell’oggetto morale e/o etico di manifestarsi, senza presentarsi univocamente. Il motivo è presto detto: la sua strutturale debolezza rispetto alla forza e alla pesantezza dell’esperienza tangibile! Chi dice «questa cosa è morale» non sembra raggiungere la stessa chiarezza di chi dice «ogni oggetto lasciato nel vuoto precipita»: chi può negarlo?

È cruciale e delizioso al contempo, allora, imparare a «sostare» prima di varcare la soglia delle questioni morali, proprio per evitare di iniziare a discutere all’infinito senza capire magari che le infinite discussioni si fondono per la metà sulle parole.

E la sosta può permetterci di ragionare in due modi. Primo modo: «La moralità è leggera, quindi è vuota». Secondo modo: «La moralità è leggera, però non è vuota». Ecco il bivio!

La favola della morale

La strutturale leggerezza dell’oggetto morale spesso porta a liquidare la questione dicendo che la morale è una favola.

Il filosofo «picconatore» Friedrich Nietzsche, quello della filosofia del martello, lo ha reso acutamente in una delle sue sentenze in Al di là del bene e del male: «Non esistono affatto fenomeni morali, ma soltanto un’interpretazione morale dei fenomeni».

Sappiamo quanto sia azzardato interpretare a proprio modo i pensieri del filosofo, ma quanto sembra voler dire scocca davanti ai nostri occhi come un dardo infuocato per incenerire l’oggetto morale e farlo evaporare come favola che si contrappone a tutto ciò che è reale.

Ciò che sembra suggerirci questo modo di risolvere il problema è che la capacità di ri-conoscere tutto ciò che può essere meritevole di lode o di biasimo non è riconosciuta. Forse che dietro a questa resistenza a «ri-conoscere» c’è un’assenza o mancanza di coloro che non inverano questo appello incondizionato a ciò che è meritevole o sgradevole?

La morale della favola

Eppure, sebbene non siano molti coloro che vivono l’apertura e la disponibilità a «riconoscere» tale incondizionato appello, ci sono. E il fatto che ci siano basta per spiegare perché lì dove c’è una favola c’è una morale.

In questo caso la moralità è prima di tutto la ragionevolezza di ciò che vale la pena far valere, ovvero ogni qualvolta decidiamo di inoltrarci oltre la soglia delle questioni morali non possiamo non farci attrarre da quello che chiamiamo valore, la cui caratteristica è proprio la sua capacità attrattiva, il suo intrinseco appello al bene. Intendiamoci: non abbiamo trovato così facendo questo o quel bene, non ne abbiamo neanche compreso il contenuto. Abbiamo semplicemente scelto il luogo da cui guardare la realtà.

Perché la morale non sarebbe una favola e la favola avrebbe una morale?

L’esistenza del bivio è indiscutibile. La scelta di imboccare l’una e l’altra strada invece sì. Perché si dovrebbe «ri-conoscere» una ricchezza valoriale alla realtà, dunque perché dovremmo ammettere qualcosa che andrebbe apprezzato e amato contro ciò che, invece, andrebbe disprezzato e biasimato?

Crediamo che «in-tendere» la moralità sia tutta in quel «tendere-in», ovvero nel prestare orecchio alla realtà.

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