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Moralia Blog

La leva militare volontaria. Un ragionamento etico

Affrontiamo in chiave etica la questione se sia giusto o sbagliato che lo Stato preveda per i suoi giovani la leva militare volontaria e di destinarli, in caso di necessità, a combattere.

«In realtà, io stesso parlo non come uno che sa, ma come uno che procede per via di congetture. A ogni modo, che scienza e retta opinione siano diverse non mi sembra di saperlo solo concettualmente; anzi, se pur vi è qualcosa che io credo di sapere (e credo di saperne poche), questa porrei in primo piano tra le cose che so» (Menone, 98b)

 

Ho sempre trovato quanto Platone afferma nel suo dialogo Menone una vera e propria dichiarazione di auto-consapevolezza dell’eticista (teologo o filosofo poco importa). L’argomento è un rompicapo: si può insegnare a essere virtuosi? Tradotto: può l’etica sviluppare un discorso ragionevole e razionale alla stregua di altri saperi?

Questa dichiarazione di auto-consapevolezza del mio contributo vuole scongiurare subito un rischio che si corre spesso quando si affronta un qualsiasi argomento eticamente rilevante, cioè di confondere ciò che uno sa con ciò che saprà solo se procede per via di congetture.

E allora vi pongo, cari lettori, una domanda: volete capire cos’è l’etica teologica e i motivi più nobili per desiderare di studiarla? Basta prendere un problema morale pratico e trovare i punti nei quali, discutendolo, ci sembra si sollevino questioni teoriche. Ritengo, cioè, che non si possa discutere seriamente di alcun problema morale per più di dieci minuti senza imbattersi in alcuni gruppi di altri sotto problemi di carattere più teorico che pratico.

Affrontiamo quindi la questione se sia giusto o sbagliato che lo Stato preveda per i suoi giovani la leva militare volontaria e preveda, a motivo del nostro attuale scenario geopolitico, di destinarli in caso di necessità a combattere (con Israele contro la Palestina o con l’Ucraina contro la Russia).

Oggi l’avranno pensato tutti dopo la proposta del ministro della Difesa, Guido Crosetto, di lavorare a un disegno di legge che prevede di ampliare il numero di persone impegnate nell’esercito con delle forze che si attivino in caso di necessità.

Supponiamo che la maggior parte dei giovani di oggi condivida una posizione pacifista e che, al di là di questo diffuso pacifismo, essi siano quasi sicuri che c’è qualcosa di sbagliato nella posizione del proprio paese di schierarsi a favore delle ragioni di una o dell’altra parte; e che, tuttavia, ciò non implichi affatto che si debba per partito preso rifiutare l’idea che un paese possa disporre di un numero congruo di soldati ai fini della propria politica estera.

Infatti, indipendentemente dal fatto che il proprio paese stia agendo in modo sbagliato, esiste un dovere che si ha verso il proprio paese, e andando contro questo dovere si commetterebbe un male maggiore, perché sarebbe tutto da verificare se le linee di condotta del proprio paese siano così immorali da giustificare una diserzione.

Come è evidente si staglia la domanda: quale sarebbe il dovere di un giovane chiamato alle armi dal proprio paese? Essere pronto ad ammettere che se il proprio paese intraprendesse una politica di connivenze poco limpide sarebbe suo dovere sottrarsi all’arruolamento?

Oppure il suo dovere è assolvere al dovere pensando di non essere nelle condizioni di esprimere giudizi su questioni di politica estera così complesse, rimettendosi dunque alle decisioni di chi conosce meglio le questioni?

Oppure, drasticamente, il dovere di questo giovane è quello di trincerarsi dietro la bandiera del pacifismo, convinto di aver preso il toro per la corna?

Come è ancor più evidente, tutto questo basta per mettere in bella vista sul tavolo la complessità di un problema che cela altri problemi, e se non li risolviamo rispondere al problema esposto sopra è solo aria fritta.

 

Il pacifismo è pacifico?

Allora isoliamo il primo problema e proviamo a chiederci: pur essendo tutti per la pace, il pacifismo è pacifico? Questa chiarificazione è importante perché conosciamo le nostre intuizioni e ci fidiamo di loro, tuttavia esse non ci vengono in aiuto per sapere quali di queste intuizioni siano giuste in contesti concreti.

In contesti operativi come questi, allora, pur partendo da una bella intuizione (la pace è meglio della guerra), non dobbiamo mai considerare infallibile l’intuizionismo. Se l’intuizione è bella, l’intuizionismo risulta parecchio dannoso se confondiamo i «principi intuiti» con le «norme morali» che vengono formulate in seguito al conflitto tra i principi stessi.

Si può usare la forza a fin di bene?

Andiamo al secondo problema: può l’impiego della forza militare contribuire al bene generale dell’umanità? Questa è la domanda che innesca la vera discussione morale che mostra una sua prima importante componente: esistono dei valori, il cui ruolo a livello formativo ed educativo è insostituibile. Questi, una volta appresi, ci strutturano e sono fondamentali per la conduzione della nostra vita.

Ora, può essere che tali valori intuiti diano vita a un’impostazione di tipo assolutista, per cui si pensa che in quanto tali non c’è modo di poter scegliere uno rispetto a un altro in forza della loro incommensurabilità.

Tuttavia bisogna spingere in avanti la discussione e chiederci: in situazione di conflitto la realizzazione di certi valori promette di conseguire migliori effetti rispetto ad altri, quindi che fare?

Quando la scelta è sostenuta non da motivi non morali – come il timore di fare una brutta fine oppure una questione di puro orgoglio nazionale –, ma da un atteggiamento imparziale, essa invera l’autentica posizione moralmente giustificata di universalizzare un giudizio la cui logica è la seguente: che cosa comporterebbe per chi non lo perseguisse se fosse il nostro paese ad aver bisogno di aiuto?

Ovvero: vorremmo che gli altri ci usassero violenza e non ci difendessero se ci trovassimo in una posizione di debolezza?

Con quale atteggiamento imbracciare un’arma?

Infine giungiamo a un terzo problema: il conflitto del dovere di accettare la leva o disertare se va risolto sul piano etico normativo, va mantenuto insolubile sul piano parenetico?

La risposta è affermativa, in quanto continua ricerca morale di una corrispondenza dell’azione difesa/offesa con il «senso dell’umano», che si presenta o si dovrebbe presentare in una riflessione etico-teologica come un quadro di riferimento che permette di ricollocare in una luce più chiara tutti i possibili criteri che possiamo esibire per stabilire una proporzionalità tra mezzi e fini.

Le provocazioni del discorso teologico sull’etica della legittima difesa potrebbero essere di questo tenore per mantenere viva l’attenzione su possibili abusi: chi imbraccia un’arma, sebbene sia costretto per il servizio che svolge, con quale atteggiamento dovrebbe farlo?

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