In principio è l'ascolto. L'incontro di culture, oltre la tolleranza
In un mondo in cui il rassicurante concetto di “nazione” appare sempre più in difficoltà dinanzi all’imponente dilatarsi della globalizzazione e al correlativo aumento del fenomeno migratorio, i contatti con gli stranieri producono in molti cittadini un preoccupato senso di smarrimento, originato dal timore che i costumi culturali e religiosi più tradizionali saranno inevitabilmente compromessi dalla forzata coabitazione con chi porta con sé un’eredità fatta di tradizioni culturali diverse.
Disporsi
all’ascolto
Ora, nel porre l’importante questione della pratica interculturale sembra a molti che la risposta stia nel dare avvio a uno sforzo quasi titanico in funzione dell’incontro tra le culture, sforzo almeno altrettanto imponente dell’opposto “scontro delle civiltà” a cui ci ha da tempo abituati lo storico americano Samuel Huntington. È invece mia convinzione che la pratica dell’interculturalità richieda anzitutto proprio l’opposto di uno sforzo più o meno poderoso. Vediamone i motivi.
Rilevo dapprima che l’immagine grandiosa di una molteplicità di aree culturali che si incontrano (o scontrano) non corrisponde affatto a quanto accade nella realtà. A incontrarsi sono infatti sempre e soltanto gli individui umani che, singolarmente o in gruppo, fanno esperienze più o meno riuscite di relazione con il culturalmente altro.
Ma ritengo soprattutto importante sottolineare che l’esperienza interculturale non va identificata con alcun potente dinamismo, in quanto il suo punto di avvio e la sua disposizione costante corrispondono piuttosto alla capacità e volontà di fare spazio all’altro, di ospitarlo nella sfera della propria esperienza.
Tale pratica ospitale è traducibile propriamente con la disponibilità a dare ascolto a chi è diverso per tradizione culturale. Solo coloro che – al posto di accingersi a un immaginario agone nei confronti delle esperienze culturali straniere – si fermano e prestano ascolto a chi incarna tali esperienze, sono nella condizione di dare vita a un dialogo interculturale. Già papa Paolo VI nell’enciclica programmatica Ecclesiam suam (1964) osservava che in ogni relazione dialogica «bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo» (n. 90).
Dall’ascolto allo scambio
Comprendere che a fondamento di un incontro interculturale sta l’ascolto significa ammettere che la nostra risposta all’appello dell’altro è “produttiva” (non “ripetitiva”) solo allorché ci lasciamo pungolare da tale appello.
La nostra epoca ha lasciato alle spalle una fase ancora acerba di accoglimento dell’altro corrispondente all’esercizio della semplice tolleranza nei suoi confronti. Ma oggi siamo chiamati a un superamento di questo stadio. L’essere tolleranti implica infatti ancora una prospettiva unidirezionale di chi ha raggiunto la consapevolezza che anche l’altro ha dei diritti inalienabili fondati su ciò che ci accomuna, ossia sulla dignità intrinseca a ogni uomo.
In quest’epoca di globalizzazione avanzata ciò non appare però sufficiente. Non basta più riconoscere nell’altro la medesima natura umana. Siamo infatti sempre più pungolati dall’estraneo a riconoscerlo anche nella sua diversità, una diversità spesso irriducibile a unità sinfonica. Tutto ciò corrisponde – nota il teologo Claude Geffré – al principio biblico secondo cui «il dissimile riconosce l’altro, l’estraneo, nella sua differenza» (De Babel à Pentecôte), regola fondamentale in funzione di un dialogo animato dal rispetto per l’altro. È attraverso l’ascolto dell’alterità dell’altro che sono poste le condizioni per un fecondo scambio di memorie.
Enrico Riparelli