Il web può essere uno spazio liturgico?
Non sono un liturgista. Mi occupo però di diritto, e in particolare di diritto delle religioni, cioè di quelle regole che presiedono al funzionamento delle singole confessioni religiose.
I diritti delle religioni presentano rispetto ai diritti statali tipicità proprie e specifiche, tra le quali, spesso, un insieme di regole che disciplinano la dinamica comunicativa tra i fedeli e Dio: le regole liturgiche. Anche queste regole rispondono a una funzione che è fondativa di ogni esperienza giuridica: risolvere problemi pratici.
Ecco, a me sembra che in questo periodo di emergenza sanitaria da coronavirus, le regole liturgiche della Chiesa cattolica non riescano a dare una risposta efficace a una questione immediata: l’accesso alla celebrazione comunitaria in tempo di quarantena.
Esattamente nel periodo in cui la Chiesa sta vivendo una vera e propria rivoluzione digitale, sempre più disposta a offrire servizi religiosi sul web, la Congregazione per il culto divino stabilisce delle norme per il rito tridentino.
Questo al giurista che guarda alla funzione pratica del diritto non può che apparire almeno bizzarro. Tempistica perfetta, potremmo dire… È l’ortodossia che prevale sull’ortoprassi. Eppure è la stessa Congregazione, insieme alle conferenze episcopali, a raccomandare a vescovi e sacerdoti l’utilizzo delle nuove tecnologie per trasmettere in diretta celebrazioni liturgiche, momenti di preghiera e catechesi. Ma – è la domanda che ci poniamo – come Chiesa possiamo dall’oggi al domani cambiare, seppur costretti, modalità, abitudini e costumi liturgici senza pensare di avviare una riflessione teologica sulla presenza nel modo digitale?
Il web: da spazio comunicativo a spazio liturgico
A ciò molti sarebbero portati a rispondere che un dibattito c’è stato ed è ancora in atto nella Chiesa. Ci si ricorderà, ad esempio, di un interessante documento del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali del 2002 su Chiesa e Internet. Il punto è che per la Chiesa generalmente Internet è un problema di «comunicazione».
La Chiesa con il concilio Vaticano II cerca nuove strade e nuove vie per annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo attraverso i mezzi della comunicazione sociale. La «nuova» evangelizzazione di Giovanni Paolo II risponde a tale esigenza e si riferisce alla «novità» degli strumenti. E anche la testimonianza profetica di don Giacomo Alberione, che fonda la famiglia paolina, ha come obiettivo l’annuncio della parola di Dio tramite carta stampata, radio o televisione.
Con le nuove tecnologie Internet semplicemente si aggiunge a questi mezzi, come veicolo efficace di trasmissione del messaggio cristiano. Tutto qui. Ma non si fanno i conti con quella rivoluzione digitale che segna il passaggio dalla realtà virtuale alla realtà aumentata.
Il web non è più uno spazio parallelo rispetto a noi, di cui noi siamo spettatori (come ad esempio davanti a una televisione), ma consente di «aumentare» la realtà che ci circonda, di ampliare le nostre relazioni sociali. Internet diventa uno spazio da abitare, il reale non coincide più con la dimensione materiale, si amplia fino a comprendere anche la dimensione immateriale.
Tutto ciò porta a una domanda che a oggi nella Chiesa è ancora elusa: la rete web, oltre a essere mezzo di evangelizzazione, può anche essere spazio in cui si diffonde la grazia sacramentale? In altre parole: è possibile un cambio di paradigma per il web: da luogo che dà una certa idea di comunità a un luogo che anche crea comunità, ossia da spazio comunicativo a spazio anche liturgico?
Nella realtà aumentata ci si può riunire nel nome del Signore?
Spetta alla teologia offrire una risposta a questo interrogativo. E forse i tempi non saranno brevi: è stato necessario un concilio per abitare il mondo contemporaneo, ci vorrà almeno un’assise sinodale per abitare il mondo digitale (anzi: perché non dedicare a questo tema il prossimo Sinodo ordinario?). Ma probabilmente il pensiero giuridico, inteso come ortoprassi, qualche coordinata essenziale la può offrire.
Innanzitutto bisogna partire da alcune distinzioni che, nella comunità ecclesiale, si fa fatica a riconoscere (e lo vediamo in questi giorni): c’è differenza tra la trasmissione di una celebrazione in differita, una diretta streaming in tempo reale (come le live su Facebook o YouTube) e una videochiamata di gruppo digitale (come Skype, Google Meet, Zoom)? Per rispondere a ciò entra in gioco la dicotomia che offrivo prima, tra spazio comunicativo e spazio liturgico.
Se il web è (semplicemente) uno spazio comunicativo: no, non c’è differenza, in quanto l’annuncio del Vangelo è comunque salvo. Tant’è che oggi nei diversi provvedimenti delle conferenze episcopali non troviamo segnalato questo problema, e i diversi strumenti sono proposti e usati in maniera indistinta.
Ma se Internet è inteso come spazio liturgico, allora la situazione non può che cambiare. Prendendo in considerazione Matteo 18,20 («Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»), sembra che siano due gli elementi essenziali della celebrazione eucaristica: 1) l’attualità della celebrazione, come momento presente di grazia; 2) il popolo di Dio come assemblea che si riunisce nello «spezzare» il pane.
Nella celebrazione in differita entrambi questi elementi mancano; nella diretta live c’è solo l’attualità; nella videochiamata c’è sia la presenza attuale sia l’assemblea che si riunisce. O meglio, ci potrebbe essere… se ammettiamo che due o più persone, oggi, si possano riunire nella realtà aumentata, cioè anche in digitale. Ai tempi di Gesù di Nazaret questa possibilità non c’era, oggi perché negarla? In una videochiamata possiamo condividere sentimenti, emozioni, piangere e ridere insieme, possiamo anche stipulare contratti che producono pretese e obblighi giuridici, perché non ci si potrebbe riunire nel nome del Signore e vivere la sua presenza? E non è già questa una presenza eucaristica?
Assunta tale dimensione, il sacerdote che presiede in una videochiamata digitale non può che farlo con il concorso di popolo. Perché effettivamente il popolo concorre, seppur in una realtà aumentata. E in tutto questo, com’è ovvio, deve essere poi affrontato sul serio il tema della comunione spirituale, oggi interpretata solo in termini «palliativi».
Se non riusciremo a fare un discorso del genere nelle nostre comunità ecclesiali, continueremo a vivere nella contraddizione di vescovi e preti che raccomandano al popolo di seguire celebrazioni che formalmente sono considerate «senza popolo», chiedendo però, al contempo, di non prenderle alla stregua di forme intrattenimento. Ma se non vi è partecipazione liturgica, in senso pieno, che cosa dovrebbe distinguere queste celebrazioni on-line da altre trasmissioni in palinsesto, cioè da un intrattenimento?
Sia chiaro: non si vuole affermare che con Internet diventa superfluo l’edificio fisico della chiesa. Ma semplicemente che la chiesa fisica può essere aumentata in uno spazio virtuale consacrato (a proposito: si possono pensare forme di consacrazione dello spazio digitale?) in cui vivere cristianamente l’essere assemblea liturgica, e dove il campanile può essere sostituito anche dal suono di una notifica…
Ad alcuni un discorso del genere farà storcere il naso. Eppure, mai come in questi tempi, nella Chiesa cattolica dobbiamo avere l’audacia di farci domande coraggiose che attendono risposte coraggiose. Altri diranno che il web ci rende tutti più distanti, rompe le relazioni sociali, ci fa più soli, e che la Chiesa non dovrebbe correre il pericolo di smaterializzarsi. In una parola: che i tempi andati erano migliori di quelli presenti. Profeti di sventura, li definirebbe papa Roncalli. Che cosa sta rimanendo di quel messaggio di liberazione che s’incarna nella storia dell’uomo e, quindi, pure nella storia digitale, tappa fondamentale del cammino dell’umanità? Gaudet mater Ecclesia … anche on-line.
Luigi Mariano Guzzo, canonista, collabora con la cattedra di Diritto ecclesiastico e diritto canonico, e insegna Beni ecclesiastici e beni culturali presso l’Università Magna Grecia di Catanzaro.