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Il samaritano è morto?

Se la Bibbia è la grande narrazione entro la quale si inscrive la parabola dell’Occidente, non c’è dubbio che un testo chiave per interpretarla sia la parabola del buon samaritano. Non casuale, in tal senso, l’attenzione di cui essa è più volte stata fatta oggetto dall’iconografia europea.

Come sottolinea con forza Armido Rizzi, essa si presenta come un testo chiave, nel quale si dispiega in forma narrativa quell’esperienza etica fondamentale che il comandamento dell’amore esprime in forma imperativa.

L’appello muto, che proviene dal corpo ferito dell’uomo aggredito dai briganti, diviene la cartina di tornasole che rivela la disponibilità a farsi prossimo di coloro che passano in quel luogo.

La figura del samaritano, che se ne fa carico – senza nulla sapere di lui, a prescindere dall’inimicizia e dalla distanza culturale che poteva separarlo da un ebreo – è allora l’icona di un’etica della cura e della responsabilità, pronta a rispondere al grido, persino quando esso è senza parole. Di più, la tradizione cristiana ha sottolineato come il movimento che in essa prende corpo si ponga come corrispondenza allo stile di un Dio che ascolta il gemito della creazione e nel Figlio se ne fa carico fino in fondo, per curarla.

Una storia degli effetti

A partire da tale figura la tradizione cristiana ha espresso una lunga storia di pratiche di cura e di attenzione all’altro, che nella storia dell’Occidente si è poi fatta cultura, fino a prendere corpo anche in istituzioni e forme sociali. La stessa crescente attenzione per i diritti dell’uomo che innerva la cultura politica degli ultimi secoli potrebbe essere letta come espressione – certo secolarizzata, sganciata da ogni riferimento religioso – di una presa in carico del soggetto nella sua fragilità, per tutelarlo contro la prevaricazione e sostenerlo nel suo essere.

Certo – sottolineava Emmanuel Levinas – tale lettura risulta sensata nella misura in cui l’accento cade sui «diritti dell’altro» e non sull’affermazione del soggetto nella sua onnipotenza. È in tale orizzonte che, per il filosofo ebreo, nell’appello d’altri risuona – pur segretamente, in forma nascosta – anche quello di un’Alterità fondante.

Un mutamento epocale?

Si ha però l’impressione che l’Occidente viva in questi anni una sorta di seconda secolarizzazione, in cui le pratiche politiche e culturali – caratterizzate ormai dall’affermazione di laicità rispetto al dato religioso – tendano a sganciarsi anche da quell’istanza di cura e di attenzione all’altro che in esso aveva trovato espressione. Si attenua così quella passione per la relazione e quell’attenzione per il fragile che in altre fasi storiche sono state custodite dalle forme del discorso di fede.

Se questo accade – quando, ad esempio, si delibera e si ordina di non ascoltare le domande di aiuto – lo spazio pubblico rischia di insterilirsi, privandosi di ogni dinamismo. La disabitudine all’ascolto del grido dell’altro, infatti, ottunde i sensi e la mente, rendendo incapaci anche di accogliere il dono segreto di novità che egli porta in sé.

Ci vuole molta speranza per continuare in questo contesto la fatica di un lavoro culturale, teso a supportare ancora un’etica estroversa che superi il ripiegamento identitario su di sé.

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