Il presidente Mattarella: di obbedienze e di virtù
«L’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni»: così scriveva don Lorenzo Milani, ormai gravemente malato, ai giudici del processo intentatogli per la sua Lettera ai cappellani militari del 1965, in difesa dell’obiezione di coscienza (all’epoca punita dalla legge).
La sua lucida difesa del diritto di dissociarsi da leggi che prescrivano azioni immorali ha lasciato un segno profondo nella coscienza etica del paese e non a caso solo pochi anni dopo veniva approvata una legge che riconosceva l’obiezione di coscienza, aprendo alla possibilità del servizio civile. Grazie a esso molti – e tra di essi chi scrive – hanno avuto la possibilità di manifestare il loro dissenso rispetto a una logica di guerra, dedicando invece tempo a gesti e pratiche di servizio alla comunità civile.
Obbedienza e autonomia morale
Ma la frase di don Milani ha avuto una storia degli effetti che va ben al di là del contesto in cui è stata scritta. La sua presa di distanza da un’obbedienza da praticarsi sempre e comunque esprimeva anche un sentire comune, un’esigenza di autenticità insofferente nei confronti di doveri imposti dall’esterno.
Non è difficile riconoscere in essa una delle matrici sottese a quel complesso movimento di trasformazione socio-culturale e di contestazione dello status quo che è stato il ’68, non a caso compendiato talvolta nel sartriano «ribellarsi è giusto».
Ma anche nella riflessione teologica gli anni del dopo-Concilio ricercavano una comprensione dell’esistenza etica che non fosse semplice conformità a regole, ma piuttosto libera corrispondenza a una vocazione (esplorando cioè una comprensione teologica dell’autonomia morale).
Obbedienti e «pecoroni»
Mezzo secolo è trascorso da tale fase storica, ma i decenni passati non hanno certo modificato tale tendenza, che si è piuttosto radicalizzata: oggi è talvolta difficile persino spiegare il senso di una riflessione morale, come se – a prescindere da contenuti specifici – il suo stesso presentarsi fosse di per sé violazione di una soggettività che si vuole totalmente autonoma.
Facile comprendere, insomma, come l’obbedienza non goda di buona cittadinanza nel sentire comune… non certo una virtù. Si pensi ad esempio al movimento no-vax di questi ultimi mesi, che più volte ha descritto la pratica di chi faceva proprie le norme mirate alla sicurezza comune in termini rivelatori: il fatto di obbedire è da «pecoroni»; l’invito non può che essere «svegliatevi!».
Evocare questo contesto culturale aiuta probabilmente a comprendere la profondità della meraviglia suscitata dal sobrio comportamento di Sergio Mattarella: lui che aveva chiaramente manifestato – in gesti e parole – il desiderio di concludere la sua esperienza come presidente del Consiglio, lui che più volte aveva dichiarato di avere «altri progetti», non si è tirato indietro quando è stato interpellato, ma ha semplicemente obbedito, rendendosi disponibile.
Stupisce e interroga una tale obbedienza senza riserve alla richiesta giuntagli da altri, all’appello proveniente da una situazione delicata e potenzialmente critica. Stupisce e offre una testimonianza alta di ciò che significhi responsabilità morale e politica.
Il reale che ci interpella
Ma allora don Milani sbagliava? Non credo proprio: lui stesso si diceva «obbedientissimo in Cristo» e la sua esistenza è stata intessuta di molte obbedienze.
Il priore di Barbiana, in effetti, sapeva assai bene che rifiutare obbedienza alle leggi ingiuste non significa in alcun modo chiedere l’orecchio alle interpellazioni di cui è intessuto il reale. Nella stessa Lettera ai giudici scriveva:
«Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista Me ne frego».
Quello che ci ricorda don Milani è che, se non è certo virtuosa un’obbedienza cieca e scriteriata, tanto meno lo è la semplice rivendicazione del diritto di fregarsene.
Quello che ci ha posto dinanzi il gesto di Mattarella è, d’altra parte, uno stile morale altro, profondamente diverso: è quell’ob-audire – quel prestare ascolto al reale, accogliendone responsabilmente le esigenze – che sta al cuore di ogni autentica autonomia morale. Anche per questo a lui dobbiamo profonda gratitudine.
Simone Morandini è vicepreside dell’Istituto di studi ecumenici San Bernardino e membro del Comitato esecutivo del Segretariato attività ecumeniche (SAE).