Il genocidio brasiliano
Si è discusso e ancora si discute di bontà e legittimità delle misure adottate nei diversi paesi del mondo in merito alla pandemia (ricorderemo tutti l’affidamento all’immunità di gregge, con retromarcia e ricovero, di Boris Johnson).
Tragicamente il Brasile di Jair Bolsonaro offre allo sguardo la situazione di un paese grande e complesso in cui il potere decide ostinatamente di non assumere le misure di contenimento raccomandate: non per incapacità – non solo, almeno – ma per la decisione politica di privilegiare una pretesa tenuta dell’economia e in particolare del «lavoro formale e informale» (parola che nasconde ampie frange di sfruttamento). Così non solo non si sono adottate misure importanti a livello federale, ma il potere del presidente e dei suoi militari – ai due sanitari ministri della salute, dimessisi negli scorsi mesi, è subentrato l’ennesimo militare – ostacola anche le misure adottate dai governi locali. Il tutto condito da prese di posizione sprezzanti sull’Organizzazione mondiale della sanità e uscite prive di sensibilità («tutti dovremo morire»).
Due vibranti denunce
Nei giorni scorsi due vibranti denunce hanno raggiunto l’opinione pubblica, facendo il giro del mondo. La prima è quella di carattere istituzionale del giudice della Corte suprema Gilmar Mendes, che ha accusato l’esercito di essere «complice del genocidio» perpetrato da Bolsonaro: immediata e forte la reazione dei militari al governo e dello stesso presidente. La seconda è quella del domenicano Frei Betto, che in un’accorata lettera si sforza di far capire al mondo che cosa stia succedendo in Brasile, dove al momento le vittime sono circa 80.000: i dati – scrive il teologo, che ha conosciuto la tortura dei militari e l’impegno diretto in politica – confermano il carattere «necrofilo« e guerrafondaio dell’azione di governo di Bolsonaro. In più, la lettera contribuisce a fare luce sull’aspetto genocidario della non-gestione della pandemia, denunciato anche dal giudice Mendes.
Genocidio
Le scelte di Bolsonaro favoriranno un risparmio di spesa pubblica sulla vita di categorie economicamente e socialmente più deboli: la decimazione di anziani, malati cronici, persone sotto la soglia di povertà, consentirà un contenimento della spesa di previdenza sociale, sistema sanitario nazionale e programmi sociali per decine di milioni di bisognosi.
Ma il piano ha pure un chiaro profilo etnico, se si considera il divieto di fornire beni di prima necessità (acqua potabile, generi alimentari, Internet, sementi e dispositivi medici) ai villaggi indigeni e ai quilombo, le comunità di afro-brasiliani nate ai tempi della schiavitù e tuttora presenti. Un genocidio in piena regola, che si consuma in continuità con le devastanti scelte del governo in materia socio-ambientale. «Ingiustizia e crimine», «violazioni dei diritti umani», «nuove schiavitù», «mezzi estranei a ogni etica», denunciati nel Sinodo sull’Amazzonia (Querida Amazonia, n. 14), assumono qui la forma unitaria di una pratica genocidaria.
Prendere posizione
È urgente considerare intanto il degrado anche delle istituzioni locali nonché il silenzio e talvolta il coinvolgimento di espressioni ecclesiali (Querida Amazonia, nn. 24-25), parte delle quali a tutt’oggi schierate a favore del presidente Bolsonaro: una presa di distanza seria, chiara e pubblica è la sola possibilità di testimoniare la fedeltà al popolo con cui si cammina e segnalare un dissenso politico importante.
Una mano così libera quale quella di Bolsonaro, sostenuta dal consenso conseguito, denuncia anche i limiti delle alternative politiche: come sempre nella storia, il peggio arriva quando chi può fare meglio non esprime le potenzialità di cui dispone, dissipando le risorse in scelte attendiste, legami opachi con il mondo degli affari e così via. La strada da percorrere è la progettazione seria, l’attuazione e la moralizzazione di una politica di rappresentanza, a partire dalla garanzia della partecipazione effettiva della popolazione ai processi in corso.
Ad altro livello la configurazione in forma legale di pratiche, purtroppo ordinarie, di discriminazione sociale, economica ed etnica segnala il problema consolidato, e in ogni caso meritevole di riconsiderazione, degli strumenti di pressione, di giustizia penale e di interferenza coercitiva da parte della comunità internazionale.
Se i roghi dell’estate scorsa avevano rivelato una situazione più confusa e opaca – in ogni caso di «tenuta» – circa il consenso anche locale nei confronti di Bolsonaro, dando voce a chi localmente detiene il potere e non a chi ne subisce le più infauste conseguenze, i dati dell’attuale pandemia evidenziano il consolidamento di una pratica insostenibile dal punto di vista dei diritti umani, a cui è necessario dare la più ampia pubblicità per una presa di posizione fondata e critica.
Pier Paolo Simonini insegna Etica ecologica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – Sezione parallela di Torino.