Il buon cuore delle Big Tech
Le cronache riportano con una certa frequenza iniziative sponsorizzate da qualcuna delle grandi Big Tech relativa alle questioni su cui l’opinione pubblica è sensibile: fake news, cyberbullismo, furto di dati ecc. Tali iniziative ingaggiano anche enti meritori che si battono da tempo in questi settori.
Ma non è tutto oro quel che luccica, e il sospetto più che fondato è che si tratti di operazioni di marketing mascherate da filantropia, operazioni necessaria perché in un settore esclusivamente immateriale la reputazione è tutto.
Uno di questi progetti internazionali è GetDigital, lanciato da Facebook, che ha come obbiettivo il benessere e la cittadinanza digitale. Nulla da eccepire, se non il sospetto che vi sia una certa ipocrisia di fondo di tutto il sistema. Ipocrisia simile alla pubblicità di super alcolici accompagnata dalla dicitura bevi responsabilmente o alla vendita di tabacchi con le foto choc sulle confezioni.
La questione è sistemica: buona parte delle piattaforme social sono strutturate e funzionano per creare dipendenza negli utenti e in relazione a qualunque tipo di messaggio.
Questo è il dato di fondo e di sfondo: gli algoritmi che studiano i comportamenti on-line hanno come fine la permanenza del soggetto sulle pagine, lo scrolling, la digitazione compulsiva, e questa si realizza soprattutto attraverso quei contenuti che incidono negativamente sulle persone.
Ciò che è male ci attira
Studi sostengono che l’affezione allo scandaloso, al marcio, al negletto dipenda dall’evoluzione naturale: ciò che è male ci attira istintivamente per poterlo conoscere e poi così reagire e difenderci, soprattutto se riguarda la vita sociale e politica.
Una delle motivazioni riscontrate è che la maggior parte delle persone è colpita da notizie negative perché convinta di vivere «in un mondo molto più roseo di quanto non sia in realtà» e la notizia di nera è un aiuto a tornare a un sano realismo.
L’essere umano insomma ha una visione tutta sua del mondo che lo circonda e, per questo motivo, si sorprende di più alla vista di titoli e articoli forieri di cattive notizie.
La Rivelazione ci consegna il peccato originale come risposta spirituale che ben conosciamo e su cui non ci dilunghiamo. Ne discende che il digitale non è e non sarà mai sicuro, a fronte di qualunque campagna pseudo-sociale o di consapevolezza, laddove ognuno di noi è un utente gratuito di strumenti potenzialmente ed effettivamente diseducativi, deresponsabilizzanti e compulsivi che fanno leva sul peggio di noi.
La corsa ad accaparrarsi la partnership con questi soggetti in progetti sociali è un male che va avvertito e denunciato: ve l’immaginate l’AVIS che fa tandem con Dracula e ne va pure fiera?
La questione di fondo non è scoraggiare alcuni comportamenti dannosi, ma incoraggiare comportamenti virtuosi, cominciando con una legislazione adeguata.
Ad esempio Facebook ha un modello di impresa tale per cui non è responsabile dei contenuti che vengono postati sulla piattaforma, ma ricava denaro dal fatto che siano postati. Questo è un vulnus etico e giuridico enorme, che Facebook per primo non ha nessuna intenzione di modificare, perché è il motore dei suoi motori.
Non è forse meglio mettere al bando le mine antiuomo che raddoppiare la produzione di arti artificiali?
Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).