I Colloquio di Moralia - Italia 2016. Leadership e nuove generazioni
Dopo il contributo della Redazione di Moralia e l'intervista a mons. Francesco Montenegro, prosegue il I Colloquio di Moralia, ispirato dal rapporto CENSIS 2016, con l'intervento di Emilia Palladino, docente della Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana.
Un'Italia scoraggiata
Il Rapporto Censis 2016 disegna un’Italia ferma, scoraggiata e senza alcuna fiducia nel futuro. Nella presentazione dell’importante documento (visibile integralmente online all’indirizzo www.youtube.com/watch?v=06BPDBwJPkg), il direttore generale Massimiliano Valerii e il presidente Giuseppe De Rita, descrivono in termini chiari e impietosi una società non più capace di percepire se stessa al di là della propria contemporaneità. Gli indicatori di questa preoccupante condizione sono numerosi. Tra questi colpiscono in particolare due elementi che, a mio parere, hanno a che fare con la questione della trasmissione della leadership alle nuove generazioni.
Nel dato che vede l’aumento dei numeri dell’accesso a Internet, si può leggere cogliere l'ipotesi che i nostri connazionali si ritengano gli unici riferimenti di loro stessi, in quanto nessuna competenza li convince più di quella che occasionalmente possono costruirsi con il web: un’evidente mancanza di fiducia nella gestione della leadership da parte degli intermediari. Il Censis inoltre registra l’evidenza che nel nostro Paese non si crede più a quello che viene detto dalla classe dirigente, senz’altro come conseguenza di una diffusa noncuranza, nella migliore delle ipotesi, dei bisogni e delle capacità di chi invece dovrebbero assistere.
Una distanza tra generazioni
La drammatica e per certi versi atavica crisi della leadership in Italia, si porta dietro anche le speranze di una sua soluzione vicina nel tempo, che sia fondata su una sana trasmissione generazionale, quest’ultima a sua volta fondata su un minimo di fiducia inter-generazionale e intra-generazionale. È fatto ordinario, infatti, notare quanto poco gli adulti si fidino dei giovani, come li temano e li ritengano distanti e superficiali, come non li capiscano e non sappiano più trovare vie di comunicazione nelle quali riconoscersi gli uni bisognosi degli altri, in modo da costruire un futuro degno per tutti.
Dal canto loro i giovani percepiscono gli adulti lontanissimi dai loro spazi e dai loro interessi, forieri di un linguaggio nel quale non si riconoscono e in qualche modo colpevoli di aver loro rubato concrete possibilità di futuro. Ad esempio, come dovrebbe sentirsi un giovane, al pensiero delle condizioni nelle quali gli adulti di oggi gli lasceranno il pianeta domani? Oppure al pensiero di non avere la sicurezza di una pensione legittima, sembrerebbe più per incuria dei dirigenti (adulti), che per il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, evidente anche in Italia?
Ma allora come fare? Se non ci si fida più di nulla e di nessuno, quale meccanismo di trasmissione della competenza della leadership potrà mai emergere da questa desolazione relazionale? Esistono strategie che possano invertire la tendenza dell’incomunicabilità fra le generazioni e aprire all’emersione e al riconoscimento delle caratteristiche della leadership del futuro?
Non tutto è perduto
Ebbene, a mio parere non tutto è perduto, usando la stessa espressione di papa Francesco nella Laudato si’ a proposito del fatto che «non esistono sistemi che annullino completamente l’apertura al bene, alla verità e alla bellezza, né la capacità di reagire, che Dio continua ad incoraggiare dal profondo dei nostri cuori» (205). Di seguito, alcune suggestioni:
1) Riconoscere la ricchezza delle nuove generazioni
Non c’è trasmissione da una generazione all’altra senza che l’attuale riconosca le grandi potenzialità della successiva e le consegni le chiavi di una fiducia concreta: questo punto fa da cerniera fa il presente e il futuro. E il futuro inizia nelle famiglie, laddove sono i genitori i primi adulti ad avere l’onere di fidarsi dei propri figli.
Genitori che non sanno gestire l’obbligo educativo loro affidato, componendo correttamente il “restare” e il “lasciar andare” dei loro figli, difficilmente sapranno trasmettere ad essi il credito nelle loro capacità da un lato e la bellezza della maturità cui tendono dall’altro. Rischieranno così di convincerli che l’unico momento di vera libertà della vita sia quello senza responsabilità, come se i concetti “libertà” e “responsabilità” non abbiano nulla in comune, né moralmente, né cronologicamente.
Non è affatto scontato. La trasmissione della leadership mette le radici lì dove si insegna quale libertà possa rappresentare una concreta assunzione di responsabilità e si pretende il rispetto dei propri impegni, tanto da parte degli adulti, quanto dei giovani. L’esercizio del potere è anche questione di mediazione fra la responsabilità di chi lo possiede e la fiducia nei riguardi di coloro verso i quali è esercitato.
Al contrario, i giovani restano soli e non sanno il bene che sono e che possono realizzare. Un leader non emerge se non sa nemmeno quali siano le proprie capacità e la propria tenuta psichica e morale nel tendere alla realizzazione della propria maturità umana.
2) Ricostruire la fiducia all’interno del corpo sociale
Senza fiducia reciproca tra i vari attori della società, difficilmente vi potrà essere la costruzione di imprese comuni, per il bene di tutti. Generalmente la ricostruzione spetta a chi possiede già la leadership: la dirigenza cioè si impegna a pronunciare parole vere e a mantenerle, a proclamare riordinamenti morali e materiali e a renderli visibili, ad assicurare il primato del bene comune e a svolgere programmi e progetti che realmente e concretamente spingano in quella direzione.
Solo così l’esercizio della leadership può rappresentare qualcosa che le giovani generazioni osservano come un’attività meritevole di impegno e di coinvolgimento: nessuno vuole diventare come chi disprezza, a meno di non considerarne l’attività egoisticamente appetibile.
La trasmissione della leadership è responsabilità di chi la esercita ora, non di chi è disponibile a farlo in futuro. Sarebbe troppo facile far ricadere l’assenza del ricambio al potere sulle spalle di chi, più giovane, sembra non voglia impegnarsi. Gli spazi per imparare li deve offrire chi già sa cosa vuole insegnare.
3) Educare alla leadership fuori dai palazzi del potere
Se, come afferma il Censis, il corpo sociale italiano è rinserrato in se stesso, le istituzioni che lo servono non lo convincono più e il potere politico è percepito come casta dedita al perseguimento dei propri interessi, la trasmissione della leadership all’interno della cerchia del potere finirà per possedere le stesse priorità e le stesse strategie della dirigenza attuale.
Ecco perché, a mio avviso, hanno un inestimabile valore etico, culturale e sociale le scuole di politica e le scuole di gestione della leadership che trovano spazi al di fuori dei luoghi di esercizio del potere. Queste scuole, spesso incardinate sul territorio attraverso la disponibilità di parrocchie, associazioni comunali, piccole realtà locali di cittadinanza attiva, sono preziosissime, in quanto presentano la leadership in modo originario, per quello che realmente essa deve essere e rappresentare, cioè il servizio alla costruzione del bene comune.
In questi luoghi i giovani possono trovare un senso nuovo al loro desiderio di impegnarsi e spazi di speranza nella possibilità che si sia in grado di costruire un futuro valido, concreto, sereno, attraverso l’apporto di tutte le membra del corpo sociale, in una dimensione fruttuosa e condivisa dell’esercizio della leadership.
Una novità culturale
Si auspica in definitiva una “conversione” morale e culturale della leadership che coinvolga tanto quanti la esercitano, quanto coloro ai quali è diretta. Se dai primi dipende la trasmissione delle competenze tecniche e umane necessarie alla comprensione dell’esercizio del potere, assumendosi la responsabilità dell’“essere ciò che si dice”, ai secondi spetta di impegnarsi affinché si restituisca valore etico a chi si batte per la cosa pubblica e in generale per il servizio degli altri, senza cedere ad una cultura del sospetto e della noncuranza che possiede l’unica capacità di separare ancor di più le membra del corpo sociale del Paese.