Godot non viene mai. La realistica speranza degli scartati
Papa Bergoglio è fermo nel condannare la “cultura dello scarto”, espressione che col tempo rischia di sbiadire, quasi si tratti solo di un altro modo per richiamare l'attenzione del mondo iper-capitalistico verso chi arranca. Eppure, Francesco ha ben chiarito di non essere alla guida di un’organizzazione non governativa, per cui anche il tema dello “scarto” andrà letto nell'orizzonte evangelico, non neutralizzando la portata drammatica di quell'ora in cui, compreso che sarebbe stato messo a morte, Gesù cerca di spiegare ai suoi che cosa immagina di sé: diventare nuovo seme e nuova pianta solo dopo essere caduto dal vecchio ramo, come accade a ogni frutto maturo. San Paolo lo paragona al frutto la cui raccolta anticipa quella di tutti gli altri: una primizia.
Circa trent'anni fa abbiamo assistito con imprevista rapidità alla scomparsa del mondo comunista dell'Europa orientale e dell’Unione Sovietica. Oltre che da ragioni di carattere economico-sistemico, la velocità del processo è dovuta al combinato tra la sotterranea dissidenza culturale e improvvise manifestazioni di piazza contro i regimi. Di lì a poco la scrittrice Rita Klímová coniò l'espressione “Rivoluzione di velluto” per descrivere il delicato passaggio alla democrazia in una delle terre che più aveva patito la repressione sovietica, la Cecoslovacchia, dove, già alla fine degli Anni Settanta, Václav Havel, aveva dato alle stampe Il potere dei senza-potere (1978), uno degli scritti che avrebbe condotto il filosofo e drammaturgo a cinque anni di carcerazione. A rivoluzione ultimata, in un discorso dedicato al tema dell’attesa, Havel mise in luce il percorso compiuto.
Imparare ad “aspettare”
Le sue prime frasi, pronunciate all’Istitut de France il 27 ottobre 1992, descrivevano la caduta:
«Accerchiati, rinchiusi, colonizzati all'interno dal sistema totalitario, gli individui avevano perduto ogni speranza di trovare una via d'uscita, ogni volontà d'azione e persino il senso della possibilità di agire. In breve, avevano perduto la speranza. E tuttavia non avevano perduto il bisogno di sperare. Non potevano perderlo, poiché senza speranza la vita si svuota del suo significato».
Poi, si soffermava sul travaglio:
«Per questo aspettavano Godot, attendevano qualche vaga forza salvifica esterna. Ma Godot non viene mai, semplicemente perché non esiste, perché è soltanto un surrogato della speranza, il prodotto della nostra impotenza: non una speranza ma un'illusione. Si potrebbe dire che aspettare Godot non ha senso, è mentire a se stessi e dunque è una perdita di tempo».
Infine, l’attenzione è tutta occupata dalla descrizione dell’altro modo di aspettare, quello che un senso ce l'ha:
«Credo che bisogna imparare ad aspettare così come si impara a creare. Seminare pazientemente il grano, annaffiare assiduamente la terra che lo ricopre e concedere alle piante i loro tempi. Il nostro compito ora è uno solo: trasformare i frutti di questo raccolto in nuovi semi e annaffiarli pazientemente. Non c'è nessuna ragione per essere impazienti se si è seminato e annaffiato bene. È un'attesa che ha senso perché nasce dalla speranza e non dalla disperazione, dalla fede e non dalla sfiducia, dall'umiltà davanti ai tempi di questo mondo e non dalla paura. Un'attesa del genere è qualcosa di più che stare semplicemente ad aspettare. È la vita, la vita in quanto partecipazione gioiosa al miracolo dell'Essere».
Resilienza
È quanto sintetizzato con grande efficacia dall’editore, nel sottotitolo a un mio recente volume: Andare oltre: trovare nuove rotte senza farsi spezzare dalle prove della vita (Resilienza, San Paolo 2017). Resilienza significa, infatti, che dopo vicende traumatiche e destabilizzanti, quando non commettono l’errore di volere comandare il tempo («Godot non viene mai»), le persone e le comunità "risalgono a bordo", e lo fanno virtuosamente, spesso grazie a dei “facilitatori”. Lasciano così che le cadute siano ricominciamenti e rinascite, in una logica che il Vangelo conosce da sempre, perché intrinsecamente pasquale.