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Giovani, economia e famiglia: la rivoluzione cristiana dell’agire insieme. Intervista al card. Francesco Montenegro

Il colloquio con il card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana) è stato un vero dialogo. Profondo e arricchente. Accanto alle parole occorrerebbe raccontare gli sguardi e le emozioni, i silenzi e la vivacità dei toni quando il cardinale – don Franco, come ama farsi chiamare – parla del mondo dei giovani e degli adulti, della crisi della società e del cammino che la Chiesa può e deve compiere per affrontare e risolvere i problemi. Tutto questo non può raccontarsi in un articolo. Si porta nel cuore.

I puntini di sospensione del testo che segue dicono che si è trattato di un colloquio vero e non di risposte «pensate a tavolino», di un confronto in cui dietro la voce di un pastore, risuonava la voce del buon Pastore che ama, dialoga e vuole incontrare l’uomo di oggi.

Un problema dei giovani?

– A partire dai dati forniti dalle indagini del Censis e dalla sua esperienza quale pensa sia la situazione dei giovani di oggi?

«Oggi si parla molto del problema dei giovani o della crisi dei giovani, ma io mi chiedo se il problema sono loro o siamo noi adulti. Perché si pretendono dai giovani atteggiamenti, comportamenti e scelte che gli adulti non riescono a testimoniare, a vivere e a trasmettere. Chiediamo ai giovani ciò che non siamo capaci di fare e di dare.

Oggi è difficile essere giovani. Per noi che abbiamo una certa età, “allora” è stato molto più facile, perché tutto era ben strutturato (casa, scuola, parrocchia e così via…).

Viviamo in un tempo di grande precarietà, e i giovani sono i più grandi precari … non solo perché non hanno lavoro, ma perché ormai la loro esistenza è segnata dal precariato: se trovano lavoro, lo trovano per due o tre anni con i contratti a termine e poi devono cercarsi un altro impiego. Questa situazione li porta a non amare il lavoro, perché “a scadenza” lo devono lasciare, ma questo si riflette sugli aspetti della loro vita.

C’è dunque una crisi continua, per cui si scoprono in un pianeta, in cui non sempre si riescono a mettere i piedi per terra o a trovare il proprio posto. Se noi adulti, anni fa, potevamo parlare di futuro, i ragazzi di oggi coniugano i verbi al presente, perché non sanno o non sono in grado di guardare lontano. Tanti di loro non sanno che vuol dire progettare il futuro: non possono far famiglia e devono stare con i genitori per avere il necessario per vivere. A motivo del bombardamento che ricevono dai mass media e dai messaggi del mondo contemporaneo, vedono anche l’amore come precario: in qualunque luogo e in qualunque situazione fanno tutto come se fosso transitorio. Le radici non riescono a metterle da nessuna parte. Nella nostra terra (e non solo), il pianeta giovani è il più fluttuante.

Di solito si dice che i ragazzi sono senza valori, ma a ben pensarci siamo noi adulti a non trasmetterli: oggi – più di ieri – ci troviamo impantanati nella palude del compromesso e della mediocrità, dell’illegalità e della corruzione, pronti e disponibili alle gomitate, agli sgambetti e alle raccomandazioni…

Sono le cose che noi adulti spesso viviamo e che i ragazzi subiscono, a volte (o forse il più delle volte) senza volere superare la situazione. La stessa politica si va trasformando in un cortile dove ci si bisticcia; la scuola ha perso la sua solidità e la Chiesa… Forse in Chiesa si dovrebbe parlare un po’ meno di aldilà e un po’ più di aldiquà. Nel nostro annuncio spesso mancano i “fatti” che feriscono la società, e i giovani restano confusi e non sanno dove trovare e bere l’acqua vera che può dissetarli.

Ribadisco: esiste un problema giovani o c’è un problema che ricade sui giovani? Noi continuiamo a dire che sono il futuro, dimenticando che sono anche il presente e poiché il futuro comincia da oggi, chiediamoci quale sarà il futuro per noi, ma soprattutto per loro!».

– In questo scenario quanto e come influisce il tema dell’economia?

«L’economia dovrebbe essere “utilizzata” bene – mi scuso per il termine che non è il più adatto –per produrre bene, invece oggi quello che conta è il profitto, il guadagno. Non si riflette su come il denaro possa e debba essere utilizzato, ma su come “io posso trarre di più” da una situazione. Questo genera anche una crisi dell’economia. Essa infatti è positiva se conduce alla crescita dell’uomo, mettendolo al centro, invece il culto del profitto porta alla concorrenza, dove si vale se si possiede più dell’altro e dove ci si rifiuta di mettersi insieme per costruire il nuovo.

Nella società contemporanea c’è un grande individualismo. Si usa l’io e non il noi. La parola “insieme” è poco usata. C’è la logica dell’“io”: devo fare, io devo guadagnare... e questo porta in un mondo, costruito sui diritti e sul dovuto, che va sgretolandosi. I muri che si alzano servono a difendere i tanti io. Questo vale per l’economia, per la politica, per le relazioni…».

La società degli uomini abbassati

– I giovani però sembrano voler scavalcare i muri soprattutto grazie a Internet

«Qualcuno ha detto che questa è la società degli uomini abbassati, col volto rivolto verso il basso (il cellulare). I nostri ragazzi si confrontano con un rettangolo a colori, e così diventano sempre meno capaci di mantenere relazioni tra loro.

Anche per comunicare con chi è seduto accanto, preferiscono inviare il messaggio… non ci si sa più guardare negli occhi. L’altro, per quanto sia amico, resta sempre un estraneo...

Anche il linguaggio è cambiato, perché le parole sono mortificate: il loro mondo finisce dove finisce la loro scrivania o dove li porta il cellulare. Le scelte dei giovani sono figlie di una pubblicità che sembra indolore e simpatica, ma in realtà crea miti inesistenti: basta avere una bella casa, una macchina grande, un vestito firmato…per essere felici.

E questo, secondo me, è come mettere denaro falso in giro, perché i giovani pensano che ciò che vende la pubblicità sia la verità, tanto da farla diventare la loro verità. E noi adulti cadiamo nel tranello perché temiamo e ci sentiamo in colpa se i ragazzi non hanno la maglietta griffata o l’ultimo modello di cellulare…

Il concetto di bellezza e di amore è quasi saltato, perché la rete virtuale non raramente falsifica la realtà. I valori nei giovani sono in crisi, come dicevo all’inizio, perché ci sono bombardamenti, anche soft, che falsano ciò che si è, orientando i desideri verso ciò che non si può avere. Quel poco che si ha non dà gioia e si vuole sempre altro: c’è una macchina e poi un’altra e poi un’altra … e chi non può averla resta deluso dalla vita. Questo genera ragazzi scontenti. I media – senza volerli demonizzare – sono ormai diventati “le tate” per i bambini, e gli immancabili e necessari compagni della vita per i giovani, che misurano e giudicano la loro storia da ciò che i mass media mostrano».

Laboratori di speranza

– Quale è il suo sogno? E quali sono i semi di speranza e i progetti per uscire da questa situazione?

«Pur trovandosi nel piccolo e partendo dal piccolo, insieme, si può sognare e realizzare in grande. Occorre provocare la fantasia del giovane che può e deve trovare il sostegno degli adulti in un mondo fatto così. Alcuni stanno facendo questo cammino, aiutati dalla progettazione comune delle varie agenzie educative…

Nella nostra realtà agrigentina ci stiamo impegnando a realizzare una fondazione di comunità con piccoli progetti che intendono coinvolgere e responsabilizzare i giovani interessati, rendendolo protagonisti. È una sfida importante che si sta tentando in altre parti (c’è ad esempio anche il Progetto Policoro). I giovani non devono aspettare dagli altri, ma devono saper creare laboratori di speranza. La Chiesa li aiuta a credere in se stessi, per evitare che aspettino inutilmente che la manna scenda dal cielo. Bisogna avere il coraggio di investire, di rischiare per evitare i crolli di speranze.

La crisi generale, di cui parlavo, sappiamo che trova risonanza nelle famiglie. Papa Francesco ci dice che dobbiamo investire sulla famiglia. È alla base di tutto. Le fondamenta di un palazzo devono essere ben solide: realizzate con buon cemento e con calcoli precisi, altrimenti traballa tutto. Ed è proprio perché c’è una società traballante che diventa necessario guardare alla famiglia e puntare su di essa per dare solidità e stabilità alla società tutta.

Le comunità cristiane aiutino le famiglie a scoprire le relazioni tra i membri di esse perché una famiglia è cristiana non solo perché recita le preghiere quando si siede a tavola. È nella famiglia che si parla e si decide su come vivere l’onestà, la trasparenza, la legalità. I genitori così sono di esempio ai figli e i figli di stimolo perché il vangelo ci chiede non tanto di tenere le mani giunte, ma le maniche sbracciate e le braccia aperte per accogliere.

Non c’è luogo migliore – come laboratorio e palestra – della famiglia cristiana perché in essa si vive in piccolo quello che si vive o si dovrebbe vivere nella società: in famiglia se c’è qualcuno più debole, tutti girano intorno al debole; se c’è un malato, la famiglia cambia il proprio ritmo di vita. Se c’è un figlio che riesce nella vita, la famiglia tutta gioisce e si attrezza perché la riuscita del figlio ricada positivamente sugli altri membri.

La Chiesa dovrebbe mettere in campo la fantasia da investire in questi laboratori. È un lavoro prezioso e preciso “di cesello”. In questo senso penso una Chiesa maestra, ma che insegna con addosso il grembiule dei discepoli, degli alunni. Deve sapersi mettere accanto, leggere quello che avviene e proporre modi e mondi alternativi perché essere Chiesa fedele è portare nel mondo la rivoluzione di Dio e … la famiglia è un passaggio obbligato perché questa avvenga».

 

a cura di

Alessandro Rovello

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