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Gender e femminismo. La fatica di affermare le differenze in un mondo diseguale

La categoria del gender (usata originariamente nella grammatica) entra nelle scienze sociali grazie a Gayle Rubin (1975), che la usa in opposizione a sex: quest’ultimo indicherebbe le caratteristiche biologiche di maschi e femmine, quella invece le determinazioni culturali dell’essere femmine o maschi.

Fin da questo momento il gender intreccia il cammino del femminismo, che ne coglie l’indiscusso vantaggio nella capacità di smascherare la falsa idea che i significati e i ruoli sociali pensati per i due sessi siano naturali. La riflessione femminista si apre così alla distinzione fra il sesso e i significati a esso attribuiti, dai quali poi conseguono prassi e istituzioni sociali.

Tale distinzione permette di decostruire categorie culturali (stereotipi e simboli) e di elaborare delle strategie politiche liberanti per le donne.

Il paradosso del corpo indistinto

Con l’approfondirsi dell’analisi, però, il femminismo non si limita a considerare come costitutivo della condizione dei soggetti il solo gender, ma apre a una molteplicità di fattori che con esso concorrono: la razza per esempio, ma anche l’orientamento sessuale.

Si scopre, così, che l’identità del soggetto – e la sua eventuale negazione se non corrisponde al modello dominante – si può giocare su più piani, e in questa impostazione il gender arriva a essere funzionale prima alla distinzione fra sesso e orientamento sessuale, quindi fra sesso biologico e sesso percepito.

A questo punto si crea un paradosso, però, che la riflessione femminista mette in evidenza: la categoria di genere infatti apre alla varietà dell’esperienza corporea così come è sentita nella sua concretezza, ma allo stesso tempo – almeno in alcune accezioni – rischia di avallare una lettura indifferenziata dei corpi stessi, come se l’identità del soggetto fosse decisa a prescindere dalla loro concretezza.

Una parte autorevole delle autrici femministe ha visto in questo il pericolo di uno smantellamento del soggetto, che però in realtà sarebbe la perdita del soggetto «altro», cioè delle donne, visto che il soggetto sessualmente indistinto finisce per essere maschile.

Scrive Rosi Braidotti che si possono permettere la dissoluzione del soggetto solo quelli che si sono avvantaggiati del soggetto metafisico forte della modernità (i pensanti, votanti, possessori di cittadinanza e autorità simbolica), cioè i maschi. «Solo il soggetto che già usufruisce di presenza simbolica può aspirare a scavalcare certe barriere strutturanti, quale per esempio la differenza sessuale» («Per un femminismo nomade», in Femminismo, Millelire stampa alternativa, 57).

Una categoria indispensabile, da usare con consapevolezza

La categoria del gender d’altra parte può essere usata anche per dare spazio e valore alle differenze concrete, perché mette in chiaro la componente culturale delle gerarchie fra i soggetti e riconsegna valore al vissuto dei corpi aprendo alla significatività di esperienze diverse.

Da questo punto di vista il genere può sostenere la ricerca di simboli, perché tutti i soggetti marginalizzati, anche quelli che non si ritrovano nel sistema binario dei sessi, possano dirsi e così ottenere il riconoscimento della propria identità nell’ordine simbolico condiviso. E come il femminismo sa bene (in particolare quello di matrice psicoanalitica), è indispensabile elaborare simboli adeguati alla propria esperienza perché il soggetto formi la propria identità: le donne hanno sofferto sempre il doversi pensare tramite i simboli elaborati dai maschi, fino a che hanno cominciato a definirsi partendo da sé.

La categoria è fondamentale, dunque, al momento indispensabile, ma potenzialità e rischi nell’uso vanno coniugati nella consapevolezza che le differenze sono difficili da valorizzare in un contesto ancora fortemente gerarchico, dove il modello normativo è sempre e solo maschile.

 

Simona Segoloni Ruta, della diocesi di Perugia, è docente stabile di Teologia sistematica all’Istituto teologico di Assisi, membro del Consiglio di direzione dell’Associazione teologica italiana e vicepresidente del Coordinamento delle teologhe italiane.

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