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Francesco, san Tommaso, il card. Martini: la misericordia esalta il giudizio

Tra i molti spunti introdotti nella bolla Misericordiae vultus di papa Francesco, merita un approfondimento il passo della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino: «È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza» (II-II, q. 30, a. 4), così commentato dal pontefice: queste parole «mostrano quanto la misericordia divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di Dio».

Attribuendo in modo pieno a Dio la possibilità di agire (onnipotenza) in accordo al suo essere, l’Aquinate afferma che la misericordia può essere ritenuta la forma compiuta della giustizia propria di Dio (cfr. I, q. 21 a. 3 ad 2). La chiave della misericordia apre a una corretta comprensione della giustizia di Dio e di ogni atto di giudizio da essa prodotto. L’esercizio misericordioso della giustizia di Dio raggiunge l’uomo nella forma di un’intima partecipazione, di un patire divino per il suo destino di felicità.

Nello stesso passo l’Aquinate sviluppa alcune risonanze armoniche con l’agire dell’uomo che si lascia toccare dal modo di essere e di operare divino: «La misericordia è in se stessa la più grande di tutte le virtù, infatti spetta a essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui» (II-II, q. 30, a. 4). Il rifrangersi di tale prerogativa divina nella imago umana non si indirizza solo nell’esercizio fattivo di sovvenire alla miseria. Riprendendo l’insegnamento di Agostino (De sermone Domini in monte, I, 3.10), Tommaso avvicina la misericordia al dono dello Spirito Santo del “consiglio”, diretta espressione della prudentia, che, nella sua architettura di reciproci richiami tra virtù, doni e beatitudini, è fatto corrispondere espressamente alla parola evangelica: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia».

Questo intreccio, in grado di aprire a inedite semantiche e pratiche della misericordia, è stato intuito con finezza da Carlo Maria Martini in un suo limpido scritto, il quale, rifacendosi esplicitamente alla lezione di Tommaso, ne aveva tratto due conseguenze importanti per lo stile della parola e dell’azione personale ed ecclesiale: «Prima, che effettivamente il dono del consigliare nella Chiesa deve essere anzitutto attento ai poveri, alle opere di misericordia. Seconda, che il consigliare stesso è opera di misericordia, di compassione, di bontà, di benignità; non è opera di fredda intelligenza, di intuizione molto elaborata, ma fa parte della comprensione del cuore» (Consigliare nella Chiesa, Milano 2002, 13-25).

Ogni atto di giudizio sulla propria e l’altrui azione domanda di essere prodotto alla luce della priorità dei suoi effetti nei confronti di chi è in situazione di povertà; l’offerta del consiglio e l’esercizio del discernimento comporta di assumere dentro i propri criteri il punto di vista dell’altro, per creare uno spazio condiviso all’interno del quale lasciar risuonare (e non soffocare) la parola di salvezza che raggiunge ogni umana condizione.

In un passo della Lettera di Giacomo s’intuisce il travaglio di chi, conoscendo l’importanza dell’osservanza integrale dei comandamenti, è guidato a cogliere il principio dell’amore che li presiede, li anima e li sorregge come “legge regale” e “legge di libertà”. Questo è il nomos che conferisce qualità alla parola che consiglia e alla decisione di agire per non offuscare o contraddire il criterio che fa risaltare al massimo grado, alla sua possibilità più alta, l’atto del giudicare, secondo la prospettiva di Dio: «La misericordia sovra-esalta il giudizio» (Giacomo 2,10-13).

 

Pier Davide Guenzi

pierdavide.guenzi@unicatt.it

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