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Moralia Blog

Etica teologica: sapere, affermare, spiegare

«Fa parte della storicità tragica e non rischiarabile della Chiesa il fatto che essa, nella prassi e nella teoria, ha difeso con cattivi argomenti massime morali basate su “pregiudizi”, su pre-convinzioni problematiche che non fu la Chiesa stessa a dissolvere (…) Tali massime false (…) imposero agli uomini dei pesi».

«Uno dei compiti più importanti della teologia morale nel servizio dei fedeli (…) dovrebbe essere la loro liberazione da supposti ma infondati “vincoli assoluti”, spesso sostenuti nell’ambito della Chiesa da una certa tradizione o da determinate tendenze della teologia attuale, o da concezioni morali causate in particolare da decisioni del magistero ecclesiastico».

Il mondo chiede il conto, la teologia risponde

Non è un mistero che ai primi dardi sfrecciati dal mondo secolarizzato alla teologia, K. Rahner e J. Fuchs, ognuno nel campo che gli competeva, e il secondo in ascolto arricchente del primo, inocularono una nuova coscienza ecclesiale che metteva al centro la persona umana nel lavorio di una ricerca, lenta ma inesorabile, di una «morale autonoma» intesa (per certi versi corretta) come un’«autonomia morale», per evitare derive troppo scettiche da una parte, e superare certe posizioni moral-positivistiche di stampo teonomo dall’altra.

Qui non è il caso di essere sottili tecnicamente, ma di comprendere che liberare da infondati vincoli assoluti o da massime morali basate su pregiudizi, se interpretiamo bene i nostri due teologi, significa praticare la giustizia non a discapito della buona novella, ma in forza di essa. 

La teologia risponde, ma facciamoci anche una domanda

Il problema è serio e arduo, perché attiene alla consapevolezza che non è questione di essere alla moda e di liberarci di alcuni bastioni che attentano alla nostra tanto oggi amata libertà da ogni vincolo; al contrario, la questione è di riuscire a offrire ragioni a certi vincoli così da amarli. E allora in gioco vi è il rapporto tra il giudizio morale e l’argomentazione a sostegno di esso. Quante volte si ha la consapevolezza che il giudizio a cui si giunge come conclusione di un processo intellettivo è già nelle premesse dell’argomentazione? 

Questo dovrebbe significare almeno due cose e far riflettere su due modalità di intervento: 

  • la prima è quella di dichiarare infondato il giudizio, perché l’argomentazione non proverebbe la sua giustezza ma la presupporrebbe; 
  • la seconda è quella di dichiarare inadeguato il modo di argomentare, mantenendo il giudizio perché se ne percepisce la ragionevolezza.
Lo so, ma lo so spiegare?

Cominciamo dalla seconda cosa per poi tornare alla prima. Questa seconda interpretazione del rapporto «giudizio-argomentazione» rimanda all’importanza dell’intuizionismo in etica, che insiste sul fatto che non sempre una claudicante concettualità logica traduce un vuoto valoriale.

A volte il tentativo insistito di inerpicarsi sul crinale della concettualità per difendere un’intuizione globale della realtà, di cui quello o quell’altro giudizio morale è l’apogeo, va colta come una sollecitazione a indugiare sul senso dell’intuizionismo etico inteso come riferimento ai valori che si possono conoscere e universalizzare. Potremmo, a questo punto, imparare a riconoscere in certe posizioni normative l’imprinting della teoria metaetica dell’intuizionismo!!!

Lo affermo, ma l’ho spiegato?

Le cose cambiano notevolmente, ed è qui che sorgono diversi problemi, quando quest’intuizionismo, come teoria metaetica, viene assunto come teoria normativa.

Siamo nella prima interpretazione del rapporto «giudizio-argomentazione», nella quale la conclusione del giudizio è già nelle premesse dell’argomentazione. In questo caso, le stesse posizioni normative (in cui sarebbe il caso di riconoscere una certa intuizione, e solo quella!) diventano «assolute» o «non negoziabili», perché i buoni principi (le intuizioni morali) risultano le uniche fonti della conoscenza morale.

Chi vuole liberarsi di queste posizioni normative e si chiede perché si dovrebbero accettare di queste solo le loro intuizioni, non ricevendo da parte di chi li sostiene se non una «petitio principii» (la conclusione del giudizio già presente nelle premesse dell’argomentazione), giunge alla conclusione che è meglio liberarsene e decidere in base «alla» situazione letta dal solo attore coinvolto, cadendo in un’etica della situazione. 

Lo so, lo affermo, lo spiego 

Che strada intraprendere? L’unica che intravedo, per non imporre agli uomini dei pesi e per rimanere aperta verso l’avanti «rischiando», è quella che, pur essendo intuizionista in forza del suo presupposto (teoria dei valori), tuttavia sa che l’intuizionismo non è sufficiente se si deve operare sul piano normativo, quindi sul piano della comprensione nella situazione.

Mi sembra che sarebbe auspicabile cominciare a denunciare tutte le volte che avviene uno sconfinamento dell’intuizionismo sul piano normativo, sottolineando che ci è solo lecito salvare la bontà dell’intuizionismo senza compromettere la necessità di una teoria morale generale che va alla ricerca del «moralmente corretto» e del «moralmente buono», senza essere costretta a muoversi dentro un quadro già precostituito.

 

Pietro Cognato insegna Teologia morale e bioetica presso la Facoltà teologica di Sicilia e l’Istituto di studi bioetici S. Privitera. Tra le sue opere Fede e morale tra tradizione e innovazione. Il rinnovamento della teologia morale (2012); Etica teologica. Persone e problemi morali nella cultura contemporanea (2015). Morale autonoma in contesto cristiano (2021). Ha curato inoltre diverse voci del Nuovo dizionario di teologia morale (2019).

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