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Esserci, o non esserci? Il dilemma dell’intelligenza artificiale

Ho avuto la grazia di lavorare con un gruppo di studenti che si sono occupati, e con rilevante successo, dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alle questioni climatiche: frontiere che spesso affidiamo alla fantascienza e che, invece, hanno applicazioni interessanti ed efficaci già oggi.

L’espressione «intelligenza artificiale» è infatti tanto generica che non ci permette di entrare più in profondità nelle questioni singole o nei diversi campi di area.

Rispetto alle questioni ambientali, ad esempio, oggi l’intelligenza artificiale è applicata dalla più semplice raccolta ed elaborazione di dati sul cambiamento di temperatura o sulle emissioni di carbonio, sino al prevedere eventi meteorologici e climatici complessi, così come mostrare gli effetti di condizioni meteorologiche estreme.

I molti mestieri dell’intelligenza artificiale

Molto può essere fatto rispetto al risparmio energetico e all’efficientamento di tutto ciò che consuma energia, come i trasporti. Molto si sta facendo in agricoltura, per minimizzare l’impatto della chimica o il consumo di acqua e via dicendo. Un ampio e documentato studio, a cui rimando, ci restituisce una panoramica piuttosto interessante delle applicazioni di machine learning in questo campo.

Sotto un altro profilo l’uso di tecnologia comporta un significativo impiego di risorse energetiche, per cui diviene centrale un’analisi concreta e puntuale del rapporto costi-benefici.

Possiamo poi pensare al dibattito sull’auto elettrica, che non consuma in loco combustile fossile, ma che rischia di inquinare di più nel suo ciclo vitale complessivo.

Aumentare l’antropocene?

Date queste premesse, di fatto abbastanza già note e socializzate, la questione su cui vorrei riflettere in queste righe è più generica.

L’intelligenza artificiale trasforma la società, i rapporti economici e politici: se la nostra azione è volta a ridurre, limitare, mitigare o invertire il cattivo uso della presenza umana nell’ecosistema, il cosiddetto antropocene, la questione che si pone è se aumentare l’antropocene sia il modo corretto per ridurre l’antropocene.

La questione può essere posta sotto due profili differenti. Un primo profilo riguarda un uso più intenso di tecnologia (intelligenza artificiale ma non solo) per migliore l’uso stesso della tecnologia, per rendere più adatta, più efficiente e, dunque, meno impattante sull’ambiente.

Un secondo profilo è più culturale, e consiste in un uso più significativo di tecnologia per il «controllo» culturale, per spingere il comportamento dei singoli in una direzione più ecologica. Un esempio evidente è stato il green pass: averlo reso obbligatorio per poter accedere a determinati beni o servizi ha generato un conseguente obbligo sociale, se non giuridico, alla vaccinazione. Un uso della tecnologia, come paventava Manuel Castells, per il controllo dei pensieri delle persone indirizzandoli in una prospettiva positiva.

È del tutto evidente che il primo filone suscita molte meno perplessità etiche del secondo, tuttavia anch’esso mantiene dei rilievi di criticità. Non abbiamo qui che lo spazio che per porre la questione o per meglio dire le questioni: aprire un dibattito più intenso su questi temi sembra opportuno, forse necessario. 

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, fondatore e coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano.

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