Digiuno o dieta? Questo è il problema…
Con questa settimana siamo entrati tutti in Quaresima: anche noi di rito ambrosiano abbiamo iniziato e lo stiamo facendo con alcune norme ecclesiastiche (soprattutto legate al cibo) e tempi leggermente differenti.
«Mangione e beone»
Mangione e beone: così è definito Gesù in Mt 11,16-19. Nelle parabole dimostra cura per il cibo (e lo stare in compagnia), e non pochi eventi importanti della sua rivelazione si svolgono a tavola: basti pensare che il suo primo miracolo avviene durante un banchetto nuziale, e durante il suo ultimo pasto istituisce ben due sacramenti
D’altra parte tra il battesimo e l’inizio della vita pubblica Gesù rimane 40 giorni nel deserto per introiettare la logica del Padre, per vivere in pienezza la comunione con lui, cosa che gli permetterà di dire «no» alla tentazione di tutto ciò che lo allontana dalla sua vocazione (non a caso la prima tentazione è proprio relativa al cibo, per sé, per gli altri: cf. Mt 4,1-11, Mc 1,12-13; Lc 4,1-13).
Un senso da ricoprire
Che senso ha allora il digiuno quaresimale? Sempre più spesso mi viene rivolta la domanda in questi termini: «Ha ancora senso, oggi, il digiuno/astinenza quaresimale?». Personalmente rispondo di sì, purché non venga usato come scusa per «depurarsi», per «dimagrire», per trasformare una prassi ecclesiale dal profondo significato in una norma depauperata e costruita sulle proprie esigenze.
Tutte le regole alimentari religiose indicano digiuno o astinenza da determinati cibi (in senso totale, ad esempio la carne di maiale nell’islam, o in senso parziale come i nostri venerdì «di magro»). Queste norme oscillano tra due poli: talora sono vissute in vista di un’auto-ascesi, di un auto-dominio, in ottica penitenziale… Talora sono vissute al fine di focalizzare l’attenzione sulla nostra relazione primaria.
Dal cibo, infatti, passa la relazione primaria con la vita. In senso immediato: se non mangio, muoio. In senso mediato: noi esseri umani siamo gli unici a cucinare il cibo (lo puliamo, lo assembliamo, lo cuociamo…) e da esso passano simbolismi e attenzioni essenziali. In tavola non portiamo solo i valori nutrizionali, ma tutta una gamma di valori umani e morali, di significati e di simboli, di parole non dette a livello verbale, ma non per questo meno importanti e vitali.
Ecco allora che nella rinuncia parziale (nel digiuno o nell’astinenza), abbiamo la possibilità di fare una sorta di pulizia. Perché paradossalmente è nell’assenza che ci accorgiamo della presenza, dell’importanza, dell’essenzialità di qualcuno o di qualcosa. Con un’ulteriore immagine culinaria: per preparare un buon piatto mi procuro gli alimenti, ma devo pulirli, mondarli prima di poterli assemblare. In questo senso il digiuno/astinenza può aiutarci a comprendere ciò che ci è necessario al vivere quotidiano e quello che ci allontana dal vivere umanamente.
Il digiuno ha quindi anche un senso penitenziale, ma non se intendiamo il «penitenziale» in senso psicologico, massacrante, bigotto, solipsistico, nel senso di sentirci solo peccatori e dannati in eterno (il senso della Pasqua a cui il digiuno deve farci avvicinare è esattamente il contrario!). Ha un senso penitenziale in questa ottica: lasciare lo spazio interiore per acquisire la consapevolezza del peccato che mi allontana dalla mia relazione primaria, che è quella con Dio. Ne emerge il valore relazionale della penitenza.
Due domande essenziali
Tale consapevolezza deve muoversi a partire da due domande generate dal digiuno:
– una domanda di impostazione teologica: di che cosa mi nutro? Come nutro la relazione con Dio e come me ne nutro?
– Una domanda di impostazione etica: che ruolo ho nella «fame» del fratello?
Le due domande devono essere ricomposte sempre per il cristiano, ma in particolare nel periodo che ci accompagna a vivere la gioia del mattino di Pasqua, laddove la nostra relazione primaria con la vita assume la definitiva prospettiva escatologica di amore e vita in Gesù Cristo.